Recensione: Hammerheart

Di IlBarbaroEpico - 30 Giugno 2003 - 0:00
Hammerheart
Band: Bathory
Etichetta:
Genere:
Anno: 1990
Nazione:
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90

I Bathory, band nota per la sua importanza nella scena black metal (sono stati tra i padri fondatori del genere) e per la sua attitudine convintamente underground, sono gli unici responsabili di quel fenomeno musicale chiamato “viking metal”, ovvero una commistione tra il vecchio e incontaminato epic metal di matrice americana e le atmosfere nordiche e glaciali del black metal (generi che trovano molti più punti in comune di quanti se ne possano immaginare). La transizione tra i due stili avviata con “Blood Fire Death” ebbe il suo compimento in questo capolavoro di arte nordica, ovvero il mastodontico Hammerheart, uno dei dischi più epici e belli di sempre, frutto della passione di Quorthon (leader e unico compositore dei Bathory) per i temi relativi alla storia della sua terra, e anche della sua attitudine fortemente pagana e anticristiana.

Musicalmente parlando, abbiamo un disco dalle strutture se vogliamo lineari, decisamente poco lavorato e parecchio essenziale (caratteristiche fondamentali sia per l’epic che per il black), minimalista nel suo approccio ragionato ma immediato e carnale. La durata media dei pezzi è parecchio lunga, ben oltre i 6 minuti, ma le canzoni non presentano una varietà di riff e trovate corrispondenti alla loro lunghezza, anzi spesso ripetono la stessa formula arrangiata di volta in volta in maniera diversa per tutto il brano, creando un forte feeling epico e mitologico. Per quanto riguarda la ritmica, prevalgono ovviamente maestosissimi ritmi lenti, spesso spezzati da dirompenti cavalcate o da tempi molto più inusuali e ricercati (“Valhalla”).
Insomma niente di particolarmente diverso da quanto già detto dall’epic metal, se non fosse per una serie di innovazioni che creano uno stile completamente unico.

Il sound è nordico, glaciale, freddissimo, grazie a riff di chitarra larghi, potentissimi e quadrati, che scolpiscono le canzoni nel ghiaccio scandinavo con classe e potenza, senza troppe concessioni alle raffinatezze ma badando soltanto all’efficacia. Le soluzioni melodiche sono spesso immediate e giocate su scale minori, creando un effetto di forte malinconia e “antichità” che è un po’ il trademark di questo disco. Assolutamente particolare è la voce di Quorthon, un singer assolutamente atecnico, senza doti particolari di estensione o potenza, ma forte di un timbro unico e di una capacità di trasmettere emozioni fortissime che pochi altri suoi colleghi possono vantare. E’ proprio lui a trasportarci tra perdute leggende con cantilene pagane (“Song to Hall up High”), e a metterci nel bel mezzo di una battaglia con ferocissime urla assatanate (“Shores in Flames”).
Non ci sono episodi deboli, anche se a volte si nota una lieve stanchezza o alcune strutture ritmiche leggermente abusate, si tratta di difetti assolutamente minori.

Insomma, la peculiarità di Hammerheart sta nel suo essere una fiera testimonianza della storia e delle tradizioni vichinghe: musicalmente è epico, mitologico, ma anche triste, arrabbiato e azzarderei dire sofferto. Nelle lyrics si esplorano tutti gli argomenti della storiografia vichinga, con un picco di intensità e malinconia, oltre che di anticristianesimo, nel capolavoro “One Rode to Asa Bay”, brano concepito come testimonianza della crudele distruzione delle tradizioni vichinghe ad opera dei cristiani.

Un disco assolutamente sincero quindi, un vero viaggio nel mondo del Nord con gli occhi di un uomo del Nord e soprattutto con il cuore di un uomo del Nord, ma anche una riattualizzazione di ideali perduti e ritrovati dal geniale Quorthon, che improvvisandosi come nuovo scaldo di Odino, ha forgiato in questo disco l’essenza stesso dello spirito e dell’orgoglio vichingo, consegnandoci un disco come pochi altri ce ne sono in giro.

Tracklist:

1.Shores in Flames
11 minuti che riascono a non annoiare, anzi a farci chiedere il bis: ecco come comincia questo capolavoro. Si inizia con un arpeggio estremamente evocativo e che odora di salsedine, accompagnato dai suggestivi sussurri di Quorthon, e poi parte un riff enorme, glaciale e cadenzato che ci guida in una delle tante razzie Vichinghe dell’undicesimo secolo. I cori spezzano il ritmo marziale e nordico di questa canzone, uno dei must dell’album.

2. Valhalla
Un altro arpeggio particolare e sognante introduce questa canzone decisamente potente ma leggendaria e mitologica come sempre. Il cantato di Quorthon è molto più ruvido, e il ritmo ha un’inusuale e straniante andatura spezzata, creando così uno dei brani più particolari.

Baptised in Fire and Ice
Forse il pezzo più easy e comprensibile di questo disco, è tutto giocato su un chorus davvero formidabile e su ritmiche telluriche assolutamente incessanti. Pura potenza, per una canzone dalle tinte estremamente epiche.

4. Father to Son
Una delle perle del disco: incredibile il suo passare dal riff cupo e dissonante a un chorus solare, aperto e luminoso come il sole sui ghiacci di Svezia. Particolarissime le lyric, che narrano di un padre che insegna al figlio le gloriose tradizioni della sua gente, adattissime ad una canzone che riassume tutto lo spirito vichingo nelle sue luci e ombre.

5. Song to Hall Up High
La ballad dell’album, degna dello scaldo Bragi per intensità espressiva e sentore pagano, decisamente a suo agio in un disco che fa della filosofia vichinga il suo scopo ultimo. Incredibile come la sgraziata voce di Quorthon riesca a rendere ancora più particolare questa piccola gemma.

6. Home of Once Brave
Il brano più lento e cadenzato del disco, ci immerge nelle meraviglie del Nord attraverso sentite dichirazioni d’amore alla propria terra che Quorthon canta su strofe ampie e decisamente malinconiche. Peccato il plagio di “For Whom the Bell Tolls” dei Metallica nella conclusione…

7. One Rode to Asa Bay
Un capolavoro immortale, che non ha bisogno di presentazione: questo colpo di genio che risponde al nome di “One Rode to Asa Bay” è semplicemente una delle canzoni più epiche, malinconiche ed evocative mai concepite da mente umana. Dal triste arpeggio alle potentissime strofe, ogni secondo trasuda tutta la voglia di riscatto, la rabbia e la gloriosa memoria di un popolo schiacciato dall’ombra della Croce. Le lyrics trattano proprio del crollo dell’identità vichinga, e la musica non avrebbe potute essere migliore: assolutamente “nordica” nel feeling, intensa e conivolgente nelle linee melodiche, cadenzata nei ritmi, e interpretata con sincera rabbia da un Quorthon ispirato come non mai. Assolutamente fondamentale.

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