Recensione: Harbinger of Woe

Di Daniele D'Adamo - 22 Marzo 2024 - 0:00
Harbinger of Woe
Band: Brodequin
Etichetta: Season Of Mist
Genere: Death 
Anno: 2024
Nazione:
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78

«La tortura dello stivaletto era un procedimento usato al fine di estorcere alle vittime confessioni vere o fittizie. Il malcapitato inseriva il piede in un parallelepipedo di legno o di metallo contenente cunei dello stesso materiale. La struttura veniva via via stretta intorno all’arto provocando talvolta, oltre alla rottura delle ossa, la fuoriuscita del midollo»

[da Wikipedia L’Enciclopedia Libera].

Da tale orrida manipolazione prendono il nome i Brodequin che, grazie alla laurea in storia del cantante/bassista Jamie Bailey, onde trovare l’ispirazione per scrivere i loro testi scavano nelle xilografie e dipinti ad olio medievali. Bailey che, assieme al fratello Mike (chitarra), ha fondato la band nel 1998 ma che, a causa di problemi familiari, riesce a dare alle stampe “Harbinger of Woe” – il quarto full-length in carriera – esattamente vent’anni dopo quello precedente (“Methods of Execution”).

Mutuando l’esagerazione di manipolazioni come quella suddetta, la band fissa il suo obiettivo su un death metal violentissimo, devastante, da esplosione termonucleare. L’estremo più estremo, quindi, è la caratteristica principale che avvolge il disco. Sia per quanto riguarda i testi, sia per quanto riguarda la musica.

Seppur la tecnologia avanzi, il combo statunitense designa come batterista un uomo – Brennan Shackelford – e non una macchina, e il risultato si avverte pesantemente. Blast-beats come se grandinassero schegge di asteroidi infuocati, potenza annichilente, continui e repentini cambi di tempo la cui entità e varietà non possono essere riprodotte artificialmente con tale precisione.

Il che rende il sound del disco stesso gigantesco, possente, titanico. Jamie tratteggia le linee vocali con un tono stentoreo, grazie a un growling espresso spremendo al massimo i polmoni e tutti gli altri apparati respiratori al massimo delle loro possibilità. Non disdegnando, spesso e volentieri, a scatenare l’inhale, quest’ultimo fra i segni distintivi del brutal death metal. Che, a voler per forza appioppare una definizione, è il (sotto)genere che definisce meglio lo stile adottato dai Nostri. Brutal death metal impuro, però, contaminato dal.. death metal medesimo. Come dire «vanno bene le frange esageratamete oltranziste del metallo, ma alla fine sempre di death metal si tratta».

Spaventosa, anche, la selva di riff elaborata da Mike, impressionante nel tenere ritmi che si direbbero impossibili. Il suono della chitarra è ovviamente compresso dalla tecnica del palm-muting, senza però raggiungere valori di rottura tipo quelli del thrash. E questo, a parere di chi scrive, per rendere il sound frastagliato da un riffing che sa di arruginito, di sangue. Come se anche lo strumento di cui trattasi fosse deputato ai più feroci meccanismi di tortura.

Questo approccio si mostra davvero riuscito nel rendere la musica dell’act di Knoxville come ulteriore strumento di supplizio. Moderno, però. Oggetto per trapanare e poi distruggere le membane timpaniche, se non rese immuni allo sfascio da una reiterata abitudine ad ascoltare macelli sonori tipo Myrkskog e Tsjuder per dirne giusto un paio.

Il platter contiene, pure, alcuni inserimenti ambient per redere ancora più tetro e spaventoso un mood deputato a trasformare in sensazioni ed emozioni ciò che proviene dalla musica. Mood che, inevitabilmente, viene risucchiato dal vortice che penetra la mente per generare la mirabile trance da hyper-speed.

Più che sufficiente il songwriting applicato alla stesura della singola canzone, che nondimento diventa ottimo quando le song vengono osservate nel loor insieme. La foggia musicale in cui si muove la formazione a stelle e strisce ha i confini ben definiti, e in questo territorio si muovono le tracce, perfettamente in linea con la filosofia demolitrice dell’LP. Certo, occorrono parecchi ascolti per discernerne le differenze congenite, ma questa fatica viene ripagata come da un tuffo in un fiume di lava senza subirne le conseguenze.

Con “Harbinger of Woe” i Brodequin esplorano le lande più esterne al nucleo centrale del death metal, raggiungendo con chiarezza e lucidità i massimi livelli possibili di ferocia musicale. Un’operazione per nulla semplice, tant’è che si possono candiare come una delle band più intransingenti nel raggiungere l’obiettivo di spappolare il cervello e di buttarne via i pezzi.

Daniele “dani66” D’Adam0

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