Recensione: Heimat

Di Daniele D'Adamo - 27 Giugno 2025 - 0:00

Heimat“. Cioè Patria, in tedesco, è il titolo del decimo full-length degli Heaven Shall Burn. I quali si sono presi un bel po’ di tempo dall’ultima loro creatura, “Of Truth & Sacrifice”, del 2020, per plasmare e rifinire un sound che ha sempre mostrato un altissimo livello di qualità tecnico/artistico sin dalle prime produzioni discografiche.

Sound che presenta una novità da non poco, spiegabile approssimativamente come un passaggio dal deathcore al metalcore. Un depotenziamento, cioè, volto a eliminare le propaggini più estreme del sound stesso e quindi avere le idee più chiare, forse, per concentrarsi su di un songwriting maggiormente penetrante, incisivo. Un passaggio, questo, retaggio di molte band che, raggiunta la maturità artistica, tendono a ridurre l’erogazione di watt per provare a concepire qualcosa di diverso dal solito.

Così facendo, lo stile del combo teutonico cambia in una maniera piuttosto rilevante. Certo, il suono è comunque poderoso, potente, così come da tradizione del metalcore, genere nondimeno possente, veicolo in ogni caso di frizzante energia elettrica che attraversa, ad alto voltaggio, tutti brani del disco. Del passato, oltre alla formazione, inalterata, restano in ogni caso echi ambient di stampo epico, come dimostrano la prima (“Ad Arma“) e la tredicesima nonché ultima song dell’album (“Inter Arma“), compreso l’intermezzo ambient/strumentale (“Imminence“).

Quindi, benché si sia passati a un livello energetico inferiore, non mancano i segmenti che sanno di leggenda, per tentare di inspessire l’emotività di un sound che non è mai stato asettico e tantomeno lo è diventato adesso. Sound che di nuovo diventa il soggetto principale di questa disamina, anche perché la sua trasformazione opera un salto nel buio, nel senso che patisce parecchio la foggia musicale che permea le tracce del platter, diventata drammaticamente ordinaria e, circostanza ben più grave, piuttosto impersonale.

Detto questo, l’LP non è certamente da buttare. Anzi. Preso atto del cambiamento stilistico con serenità, si può godere dell’ascolto di canzoni senz’altro meditate a lungo, prima di essere messe sul piatto. L’orecchiabilità non manca, benché Marcus Bischoff percorra con veemenza linee vocali aride, riarse, senza però esagerare con le harsh vocals. Orecchiabilità dovuta, quindi, al lavoro sempre eccellente e di gran classe di Maik Weichert e Alexander Dietz alle chitarre, e a qualche sottofondo di synt giusto per ammorbidire e contemporaneamente inspessire il tutto.

Significativa di questa mutazione è la cover di “Numbered Days” dei Killswitch Engage, nella quale partecipa come ospite il cantante Jesse Leach. Come per battezzare la nuova veste che copre il quintetto della Thuringia. Con l’abbellimento, anche stavolta, di uno splendido dipinto di Eliran Kantor che rimanda ad antiche leggende rupestri sperdute nel tempo. C’è, al contrario, da rilevare che almeno due tracce si dimostrano ancora possedute dal demone della follia scardinatrice: “My Revocation of Compliance” e “Ten Days in May“, feroci attacchi alla giugulare lanciati da fiondate di blast-beats e riff portanti da staccare la testa a un elefante. Un po’ poco, però, per i fan più oltranzisti.

Si tratta nondimeno di capitoli a sé stanti, seppure ben incastonati nella composizione che è alla base del lavoro. Lavoro che regala altri singoli episodi piacevoli da mandare a memoria (“A Silent Guard“), indicativi, tuttavia, della perdita di alcune delle peculiarità che insistevano in “Of Truth & Sacrifice”, per esempio; tali da rendere i Nostri un ensemble capace di produrre musica ad altissimo livello assieme all’espressione di un furioso temperamento praticamente unico al Mondo.

Heimat” potrebbe essere un’opera di transizione verso territori musicalmente più tranquilli, ove aumentare lo spirito catchy che già si intravede adesso. Magari alzando, stavolta, il livello del songwriting, allo stato attuale scivolato in un’anonima media che non è casa degli Heaven Shall Burn.

Daniele “dani66” D’Adamo

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