Recensione: Heritage

Heritage. Eredità. È questo il tema portante di “Heritage“, appunto, debut-album degli Structure. I quali altri non sono che il progetto da solista del polistrumentista olandese Bram Bijlhout, reduce da un passato di sette anni negli Officium Triste, che prestano al suddetto il cantante Pim Blankenstein. Chiudono il cerchio dei musicisti ospiti Dirk Bruinenberg (Elegy) e il vocalist Robert Soeterboek (Ayreon, Plan 9).
“Heritage” racconta dell’eredità che le persone ricevono dai famigliari vissuti in tempi pregressi. Consistente in ricordi, in storie di vita, in oggetti, in odori, in sapori; in tutto quello, insomma, che è stato tramandato per completare l’essenza di ciò che si è. Per animare queste tematiche assai profonde, che sono alla base della cultura di ogni essere umano, il mastermind si rifugia nelle braccia di un doom ricco di atmosfera, tanto che nelle note biografiche si cita l’atmospheric doom metal come stile imperante.
Definizione comunque aderente alle idee di Bijlhout al fine di materializzare i sentimenti che si percepiscono quando si rimanda il pensiero ai tempi passati, ricchi di memorie che il cervello travasa nell’anima e nel cuore. Non solo una definizione centrata, però. Pure la musica del disco vibra infatti nel corpo, per innescare emozioni profonde come la nostalgia di qualcosa che è stato ma che non sarà più.
Il sound è possente, penetrante, assai ricco di parti in cui viene attivata la visionarietà, elemento imprescindibile per penetrare con la mente sino al midollo allo scopo di trovare se stessi. Aiutata, questa, dallo svolgersi, come un tappeto intessuto dagli antenati, di un ritmo lento, cadenzato, poderoso. Atto a ospitare, su di sé, gli strumenti dai quali nasce una musica ricca di melodia grazie, soprattutto, agli stupendi assoli di chitarra. Struggenti sequenze di note che, come lacrime, scivolano sul viso portando appresso i singulti che animano l’azione di Bijlhout, rendendoli in tale modo accessibili a tutti.
Il mesto andamento delle battute del drumming forniscono l’ideale nutrimento al growling del Nostro, perfetto nell’economia di un’opera concepita per essere assimilata con pazienza e attenzione. Solo così, difatti, ci si può abbeverare da uno stile che forse non è particolarmente originale ma che si mantiene lineare e deciso lungo la durata dell’opera stessa.
Si è citata la chitarra solista ma anche quella ritmica è da menzionare. Il suo compito, che è quello di alimentare nonché sostenere un suono che s’è già detto massiccio, è svolto impeccabilmente dal combo di De Bilt. Essa è imbracciata in maniera da condurre l’attenzione, a volte lentamente così come il ritmo, verso l’interiorità, dimenticando la realtà esterna. Foriera di distrazione e rumore nel suo dipanarsi nella tristezza della vita di tutti i giorni (“The Sadness of Everyday Life“).
La monumentale title-track, la cui lunghezza è coerente con quella delle altre canzoni, mostra un volto diviso a metà: da una parte, la potenza e la durezza, dall’altra, la leggerezza e la melodiosità. Antitesi che si ripete spesso ma non troppo, nelle varie song che compongono l’LP. Un altalenare che può confondere l’ascoltatore, poiché lo stacco fra dissonanza/armonia è secco, improvviso, senza che ci sia un preludio (“The Feeling of Confusion“).
Proprio “The Feeling of Confusion” rappresenta la band dell’Utrecht nella sua versione più cattiva, per modo di dire, a causa di un rutilante utilizzo della doppia cassa che rende il sound addirittura aggressivo, invece che essere dimesso come si ritiene debba essere quello dell’atmospheric doom metal. Tutte queste osservazioni sulle song portano pertanto a intuire che la foggia artistica definitiva degli Structure debba ancora addivenire alla sua manifestazione definitiva.
“Heritage” è in ogni caso un lavoro eseguito con passione, competenza, serietà e professionalità, marcato dalla ferma dedizione di Bram Bijlhout alle implicazioni derivanti dalla scelta del soggetto testuale.
Daniele “dani66” D’Adamo