Recensione: Human Progression

Di Matteo Bevilacqua - 11 Aprile 2022 - 20:47
Human Progression
Band: Mastro
Etichetta: Buil2kill Records
Genere: Heavy 
Anno: 2022
Nazione:
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65

Molti grandi album traggono il proprio successo dalla spiccata personalità che emerge da una proposta musicale libera da qualunque dogma. I creativi di ieri e di oggi hanno bene imparato il mantra del progettare senza confini, del farsi guidare dai propri gusti e impeti, del non tener conto delle esigenze di un pubblico di giorno in giorno più volatile, sempre più “oggi qui e domani chissà dove”. In alcuni casi fortunati, tale filosofia ha generato nuove esplosioni di creatività, nuove ondate di generi  musicali e la tanto desiderata celebrazione del puro genio. Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, il romantico gesto è rimasto conservato nel cassetto dei sogni personali dell’artista in questione.

Human Progression dei bergamaschi Mastro rappresenta purtroppo un esempio tratto dalla seconda categoria, nonostante la proposta tech thrash metal contaminata da jazz fusion sia sicuramente interessante.

L’idea di base nasce dal bassista virtuoso Andrea Mastrigli il quale, assieme ai compagni Simone Anaclerio degli SKW (chitarra) e  Andrea Oliverio (batteria), coinvolge una lista impressionante di special guests, tra i quali mostri sacri come Mike Terrana (Rage) e Derek Sherinian (Dream Theater). Le parti vocali sono invece affidate di brano in brano a cantanti diversi.

L’intro “Fuzius” ricorda subito i migliori Annihilator a differenza dei quali il ruolo di frontman folle è dato al basso di Mastrigli: il brano strumentale presenta ottimi stacchi, e la sensazione è che da questo momento potrebbe accadere qualunque cosa.

Putroppo le aspettative sono immediatamente frenate con “Friends” dove, nonostante la performance vocale di Cesare Rad Zanotti proponga spunti interessanti, il brano non decolla e pare completamente decontestualizzato. Il ritornello ruffiano di matrice power metal confonde ulteriormente e le prove strumentali non aggiungono nulla al torpore generale. Anche la produzione appare confusa e ovattata.

Con “Chosen One” il suono già si amalgama di più, al punto da pensare che l’album sia stato registrato in studi e/o momenti diversi.  La voce  di Zanotti è sicuramente più nitida e ne escono i connotati a’la Phil Anselmo dei tempi di Power Metal / Cowboys From Hell. Davvero ottimo. Anche la sezione strumentale richiama i Pantera dell’epoca. Un bell’ascolto. La produzione generale è maggiormente curata. A dirla tutta non sembra lo stesso gruppo, complice la presenza del buon Mike Terrana alla batteria.

Nella successiva “Spiral Of Silence” il microfono è affidato a David Quicho. Qui la band tenta un percorso maggiormente improntato sulla melodia con un bel riff trascinante in apertura, una strofa candenzata con ritmiche serrate di cassa, basso e chitarra e un ritornello accattivante e canticchiabile. Il cambio di cantante conferisce ancora meno continuità al prodotto generale, quasi come se la band stesse sperimentando le proprie carte in attesa di una scelta definitiva. Buona la produzione e le scelte melodiche dei singoli strumenti. Su tutto, un bel brano heavy power.

“Fly Away” presenta nuovamente dei suoni non particolarmente coesi e questo è davvero un peccato. Il timbro del vocalist Luca Pozzi è un chiaro omaggio a Bruce Dickinson. La sua performance è splendida ma in completa antitesi con brani precedenti a riprova che l’evidente discontinuità rappresenti il punto debole del disco. A livello strumentale, il pianoforte nella seconda strofa arricchisce il sound e crea quel collante che pareva mancare in apertura. Bello l’assolo di chitarra , forse un po’ scolastico, seguito da uno scambio ben eseguito di tapping sul basso e di stacchi accuratamente posizionati sulla battaria.

La successiva “The War Within” presenta parecchi difetti a livello di una produzione che appare  al di sotto della media (in particolare nel modo un cui la batteria entra ed esce dal mix in uno dei riff iniziali, senza neanche un briciolo di riverbero d’ambiente, risultando in un effetto taglia/incolla frettoloso)
La strofa funziona bene, con i vocals e backing vocals curati dal grande Fran Cremisi degli Enemynside. Peccato che nel ritornello sia tutto così pasticciato a livello di produzione: gli strumenti suonano in modalità random per cui le intenzioni melodiche e la carica complessiva che avrebbe il brano sono affogati dal rumore di fondo e dal cattivo arrangiamento. Infine, lo scambio di assoli tra chitarra e basso esce in maniera discontinua con poca attenzione ai volumi di ciascuno strumento.

Eccoci all’interessante “Darknest Before The Dawn”, duetto vocale tra Leslie Abbadini, e Mark degli SKW. I Mastro qui paiono i Lacuna Coil dei tempi di Unleashed Memories e se vogliamo i primi Evanescence. L’ennesimo cambio di direzione rappresenta in questa circostanza una boccata d’aria fresca dove la band suona in maniera impeccabile e, lato produzione, gioca con l’elettronica sulla voce di Mark con un risultato efficace. Gli strumenti sono ben amalgamati (su tutti, bella prova del chitarrista Simone Anaclerio). L’inconsueta scelta degli accordi rende questo brano il punto alto dell’album finora.

Ma è con “Bass Talking” che i Mastro sconvolgono in maniera definitiva mettendo in chiaro che c’è ben altro oltre quello che si è sentito finora. Una linea di basso che farebbe invidiare il fusion player Alain Caron ci trasporta verso traiettorie inaspettate, questa volta vincenti. Ritmiche heavy funk inframezzate a momenti  propriamente progressive. Ed ecco il bassista jazz/ fusion Adam Nitti che bussa alla porta con un simpatico “let’s jam”. Un epico scambio di assoli di basso crea lo scenario per quello che si è trasformato in un brano fusion. La batteria del grande Mane Cabrales fa il resto. Rieccoci al riff heavy funk inziale e il giro di giostra è finito. E che giro, 10 e lode.

Spetta a “Guardian Angel” il compito di chiudere definitivamente il cerchio. E i nostri lo fanno con un brano potente e diretto dove un ritornello di matrice heavy classica lascia spazio a momenti progressive arricchiti dal lavoro del sempreverde Derek Sherinian che non delude mai.

Risulta difficile tirare le somme di fronte a un lavoro come Human Progression. Nonostante il livello di creatività, di perizia strumentale e di arragiamenti siano buoni, la produzione dei brani non è all’altezza delle aspettative. Ma soprattutto la poca continuità dei contenuti penalizza inesorabilmente il risultato finale. Pur volendo considerare che tale caratteristica nasce da una chiara intenzione di Mastrigli e soci (nella bio si legge “nessuna regola, se non quella di metterci il proprio stile” e “la progressione musicale – come quella umana – non ha una strada definita e delineata come tanti si aspettano”) il divario tra un brano e l’altro non fanno gridare al miracolo. Al contrario, l’album pare un cattivo esperimento.

 

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