Recensione: I, The Mask

Di Matteo Orru - 2 Marzo 2019 - 10:59
I, The Mask
Band: In Flames
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2019
Nazione:
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69

Parlare di un nuovo disco degli In Flames è cosa assai ardua e complessa e risulta superfluo tornare indietro nel tempo per affrontare paragoni improbabili e inconsistenti tra i loro vari capitoli discografici e altrettanti cambi di direzione, stile e formazione di quella che oggi è una delle band più chiacchierate e criticate degli ultimi anni ma che altrettanto, è doveroso ricordare, é stata pioniera e fondamentale per un genere che venne poi ridefinito come Swedish Death Metal.

Se sperate di ritrovare con questo I, The Mask una band che decide di punto in bianco di fare più di un passo indietro e di tornare alle proprie radici preistoriche, cioè a sonorità di album seminali come Clayman, Whoracle e via dicendo, rimarrete per l’ennesima volta delusi. Gli In Flames nel 2019 sono una band ormai fortemente rivoluzionata sia dal punto di vista stilistico che di line up (ultimo assunto con contratto a tempo (in)determinato il drummer Tanner Wayne) e che sta lentamente trovando l’ennesimo assetto e questo I, The Mask ne è la prova concreta.

Tuttavia, senza troppi preamboli e giri di parole credo che l’unica cosa interessante sia: “come suona il nuovo disco degli In Flames?”, evitando giri di parole, paragoni, desideri o speranze.

Tralasciando l’uso della terza persona essendo un disco complicato da descrivere, mai come questa volta è necessario che sia io sottoscritto a espormi nel giudicare e argomentare queste nuovissime tredici tracce di una delle band più spacca opinioni (ormai dall’uscita di Reroute to Remain) che nella propria discografia, nel bene e nel male, non ha mai sbagliato un colpo dimostrandosi comunque un combo dai forti connotati esplorativi e all’avanguardia sin dalle primissime uscite discografiche anche se qualche incidente di percorso (gli ultimi due dischi erano lungi dal poter essere definiti ottimi album) c’è stato.

Chiacchiere che il vento si porta via perché oggi, primo marzo, fa ufficialmente capolino nei negozi la nuovissima fatica sulla lunga distanza già largamente anticipata da ben tre singoli nei mesi precedenti. Il tasto play freme quindi d’essere schiacciato e lo faccio con decisione perché mai come negli ultimi anni ho avuto aspettative così alte per un nuovo disco degli In Flames e sin dai primi minuti non vengono deluse: Voices, scandita da un’intro che a dirla tutta ricorda quelle delle due precedenti opener (In Play View e Drained), parte con un riff serrato ma arioso in puro stile In Flames che funge da tappeto per le liriche di un Friden decisamente ispirato e in gran forma ovviamente al netto di vari aiutini in studio, autotune etc (vedremo se dal vivo certe in parti riuscirà senza il classico aiuto di venti basi). Le harsh vocals danno spazio al ritornello in clean, ormai metrica che la band usa costantemente e sembra sia diventato uno dei suoi marchi di fabbrica. Voices risulta essere non solo un’opener vincente ma uno dei più bei pezzi del lotto abbellita da un solo semplice ma melodico il giusto da rimanere in testa e farti sbattere violentemente il collo.

Pochi fronzoli perché è tempo della title track che tutti conosciamo, una martellata in fronte che unisce la furia delle strofe al ritornello ipermelodico che, se ai primi ascolti può lasciare spiazzati, col passare del tempo risulta idea vincente per via della melodia comunque di impatto emotivo e di immediata assimilazione.

La prima e vera inedita è Call My Name, heavy song sulla falsa riga delle altre composizioni, un buon up tempo con un riff circolare e un ottimo Friden mai sentito recentemente così heavy che fa il diavolo a quattro sino alle decise iniezioni di melodia nel ritornello che danno poi spazio al primo singolo estratto I Am Above; a parere di chi scrive una canzone che può essere definita senza problemi la nuova classica hit degli In Flames nonché una delle più belle canzoni scritte dal combo dal 2002 a oggi, un brano completo, potente, aggressivo ma al contempo melodico e monolitico, articolato e non scontato che rimane subito in testa. Qui la band fa centro e se questo disco si fosse assestato su questo livello staremo parlando di un di un 90 pieno; così ovviamente non sarà pertanto meglio svegliarsi dai bei sogni per non rimanerne eccessivamente delusi.

La pecca dei ragazzi di Goteborg negli ultimi anni è quella di voler strizzare esageratamente l’occhio a soluzioni eccessivamente mainstream tipiche del sound americano spesso facendo dei sonori tonfi in quanto alcune vibrazioni o le hai o non puoi cercare forzatamente d’averle e in questo caso ci sono sia nomi che cognomi: In This Life, la prima delle tre ballad (Follow Me e We Will Remember, sicuri papabili futuri singoli del disco più che ballad possono essere definite come strutture classiche alternative rock song) è forse la più brutta canzone che gli In Flames abbiano mai scritto, una sorta di power ballad che oltre il banale rasenta il fastidioso e lo squallido che non solo invoglia a schiacciare il tasto skip ma pure di lanciare tutto in aria con tanto di imprecazioni da censura in attesa della successiva ballad, All The Pain che, nonostante sia lungi dall’essere una bella canzone è di sicuro migliore della succitata innominabile porcheria. Stay With Me, terza smanceria, non fa né caldo né freddo: inutile e insulsa come l’ennesima birra alle 4 di mattina dopo averne già bevute ventidue, rientrando nella categoria dove non inseriresti mai un disco per ascoltarla ma la lasci scorrere solo perché non hai voglia di alzarti dalla poltrona per continuare comodamente a berti il tuo drink.

Le sperimentazioni della band pure in questo I, The Mask non si fermano e vanno a esplorare orizzonti orientali con la particolare Deep Inside, traccia anomala per la band con quel “flavour” mediorientale grazie al riff portante che ci riporta in una casbah con tanto di venditori ambulanti, galline, asinelli, tappeti volanti, Aladdin e Jasmine. Song dal grande groove che può piacere per il suo sicuro coraggio e l’ottimo solo del sempre ispirato Gelotte che, in coppia al fidato Niclas Engelin, ormai compone un duo di asce affidabile quanto una Volvo e ai quali non si può recriminare di non aver svolto un egregio lavoro per tutta la durata del platter.

Il cenone di Natale può però concludersi col caffe? Assolutamente no, serve l’amaro che qui porta il nome di Not  Alone, una bonus track che aggiunge ulteriore dose di innovazione alla già cospicua quantità contenuta nel disco grazie alle melodie oscure che sfociano in un ritornello al limite del danzereccio ottimamente riuscito senza mai cadere nella pacchianata di turno.

Evitando il dilungarsi senza menzionare le ulteriori tracce che furono già rese pubbliche settimane orsono (tra tutte Burn, incredibile come una band che si chiama In Flames intitoli così una canzone solo dopo oltre 25 anni di onorata carriera) è ora di trarre conclusioni dicendo che l’entusiasmo e l’hype che si era generato inizialmente grazie ai singoli pubblicati in anteprima sono stati in parte smorzati con l’ascolto del lavoro nella sua totalità .

I, The Mask è un buon disco sotto molteplici punti di vista; ha ottimi brani che funzionano dannatamente bene e che dal vivo scateneranno circle pit e cervicali frantumate, le linee melodiche sono azzeccate e la qualità esecutiva è ad alti livelli per non parlare di un Friden che raggiunge picchi vocali mai espressi in tutta la sua carriera (ricordiamo e sottolineiamo, in studio).

D’altro canto c’è da dire che su tredici pezzi (compresa la bonus track) troviamo ben tre ballad una più brutta dell’altra e due brani di alternative rock americano radiofonico (Follow Me e We Will Remember) che, nonostante siano piacevoli figurerebbero meglio in un disco a caso dei Godsmack (di sicuro non l’ultimo capolavoro When Legends Rise) più che in uno degli IF.

La produzione risulta sicuramente migliore rispetto a quella delle ultime due uscite discografiche rasentando la perfezione nei momenti più tirati ma goffa e artificiale in questi pezzi succitati rendendoli ancora più pacchiani e mainstream oriented e creando una maggiore divisione nell’album come se ci fosse un muro: da una parte i brani per i  metallari col chiodo e la birra in mano, dall’altra canzoni per ragazzi con scarpette Vans, capellino e occhialoni da vista in preda alla prima cotta per la ragazzina più carina della classe.

Concludendo mi ricollego all’inizio della recensione sottolineando la soggettività dei pensieri sin qui espressi, pertanto criticabili e lasciando ognuno libero di dissentire ogni mia parola.  I, The Mask per me rappresenta il classico voglio ma non posso; la band se oggi volesse fare un disco di melodic death ne sarebbe ampiamente capace ma per una serie di motivi più o meno noti  non lo farà mai più, prendere o lasciare.

Le grandi canzoni ci sono così come ci sono dei passaggi a vuoto che rendono il giudizio finale di sicuro poco matematico e più che mai soggettivo tenendo conto un buon numero di variabili valutative e un’analisi analitica nei confronti di un lavoro che risulta abbastanza complesso nonostante le sue melodie facilmente assimilabili. Un settanta meno uno per la qualità organica di un disco che risulta fresco nel suo ascolto, ben suonato e ben prodotto ma che non è destinato a crescere e che in assenza di quelle tre famose tracce innominabili sarebbe potuto lievitare di qualche punticino in più.

Consiglio di ascoltare I, The Mask senza pregiudizi di sorta più volte in quanto dare un mero voto numerico e un parere sarà sempre soggettivo ed emozionale, ma una cosa è certa, questo è ciò che di meglio gli In Flames nel 2019 possono fare… e di doman non c’è certezza.

 

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