Recensione: In Tongues
Esattamente come accadde qualche anno fa in occasione dell’ondata di metalcore melodico che sommerse il mercato discografico con una miriade di proposte sia degne di rispetto sia esageratamente similari fra loro, le grandi etichette fiutano nuovamente l’affare con il suo cugino più prossimo: il deathcore.
Le differenze sostanziali fra i due sottoprodotti del death metal non sono irrisorie, manifestandosi principalmente in una diversa collocazione sui gradini della scala energetica, sempre ai massimi livelli per quanto concerne il deathcore. Un genere assai prossimo alle coordinate stilistiche primigenie del death, abbondantemente bombardato con le taglienti schegge metalliche dell’hardcore per una miscela totalmente esplosiva dall’altissimo potere deflagrante. Spesso accompagnata, non sempre, da una componente melodica più o meno accentuata a seconda dei casi. Fermo restando, per tutti o quasi, la presenza di una sopraffina abilità tecnica spesso stridente sia con la giovane età dei membri delle varie band, sia con la loro acerba esperienza in materia.
Gli americani Dark Sermon non sfuggono dalle maglie di queste caratteristiche basilari, giacché sono stati sufficienti solamente tre anni di esistenza per iniziare a fare le cose sul serio, e con il botto; cioè con un contratto con una label del calibro della Nuclear Blast Records con la quale – quest’anno – è prima uscito il classico singolo apripista (“Imperfect Contrition”) e poi il relativo full-length (“In Tongues”), facente le funzioni anche di debut-album.
Il deathcore proposto dal quintetto di Tampa è davvero travolgente, potentissimo, a tratti devastante; retto da un suono poderoso, massiccio e dannatamente pulito. Retaggio, sicuramente, di ensemble ben più attempati dei Nostri che, a dispetto di una teorica crescita poco più che adolescenziale, mostrano un piglio adulto e deciso; assolutamente consistente e perfettamente in grado di costruire un prodotto, “In Tongues”, in tutto e per tutto alla pari dei migliori lavori nel campo.
L’elevazione del caratteristico quanto tremendo muro di suono che, come una diga, materializza metaforicamente la compattezza e la graniticità di un sound esteso in tutte e tre le dimensioni, è un compito che le chitarre di Neal Minor e Austin Good svolgono alla perfezione, grazie anche all’opera di cementazione curata dal basso di Austin Chandler e dalla batteria di Bryson St. Angelo, scatenatissimo nel radere al suono ogni resistenza con continue ondate di blast-beats. Si mostra efficace nel contribuire all’aggressività generale anche la prestazione di Johnny Crowder, la cui roca ugola, tuttavia, è troppo simile a tante altre minando così la personalità complessiva dell’act a stelle e strisce. Ragionando in termini globali, pertanto, non si può non riconoscere ai Dark Sermon l’aver saputo coagulare con gran sicurezza uno stile immutabile al passare delle song, identificativo di un’unicità sonora tuttavia ancora simile ad altre.
I margini per una progressione in termini di originalità, ad ogni modo, ci sono, poiché Crowder e i suoi compagni portano con sé un bagaglio culturale che affonda le sue radici nelle cupe sonorità del black metal. Gli incipit di “The Tree Of New Life” e di “Testament”, per esempio, sono una palese dimostrazione di questa peculiarità sì ancora allo stato embrionale ma foriera di una maggiore intromissione da parte del gruppo nei cupi territori delle Tenebre in cui, come dimostrano gli stessi brani, la commistione fra deathcore e black/dark metal può dar luogo a soluzioni del tutto interessanti e avvincenti. Sfortunatamente c’è una certa remora a praticare con maggior determinazione questa strada e quindi, allo stato, prevale un approccio maggiormente scolastico alla questione che, di conseguenza, appiattisce un po’ il tutto, facendo sì che le varie canzoni siano prive di quel ‘qualcosa in più’ in grado di differenziarle con fermezza. Non a caso, anche ripetendo gli ascolti, è difficile inquadrare i vari pezzi a uno a uno. “Hounds” o “Cursed”, per scriverne due, pur essendo composizioni più che sufficienti, non possiedono ancora quei fattori di memorabilità tipici dei complessi più blasonati (Neaera, Heaven Shall Burn).
“In Tongues” è, a ogni buon conto, un’opera già meritevole di attenzione che, date le abilità intrinseche ai Dark Sermon, ha tutte le carte in regola per essere il primo passo di una lunga e proficua carriera. Nella quale, ben per loro, i margini di miglioramento paiono essere notevoli, soprattutto a livello prettamente stilistico.
Daniele “dani66” D’Adamo
Discutine sul Forum nel topic relativo!