Recensione: Infinity

Di Tommaso Romito - 4 Ottobre 2020 - 12:46
Infinity
Band: Planetarium
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 1971
Nazione:
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80

I Planetarium sono un misterioso gruppo dei primi anni ’70, provenienti da Alessandria, in Piemonte, che dopo aver pubblicato un unico album sono scomparsi dalla scena. L’edizione originale di Infinity, pubblicata in vinile, non riportava i nomi dei musicisti e si è dovuto attendere fino al 2010 per fare la conoscenza della line-up della band, per l’occasione formata da: Alfredo Ferrari alle tastiere, Franco Sorrenti e Mirko Mazza alle chitarre, Piero Repetto al basso e Giampaolo Pesce alla batteria. Infinity fu originariamente pubblicato, infatti, nel 1971 e solo nel 1990 ristampato in CD.

Non è esattamente un concept album, ma contiene tracce strumentali fortemente collegate tra di loro con un unico tema, il viaggio della vita. Le note di Infinity sono sognanti e a tratti ricordano un classico underground del prog italiano anni Settanta, Il Paese dei Balocchi (dell’omonima band), con una capacità di variare i toni da sonorità morbide a passaggi acustici cupi. Nonostante il suo incedere lento, sognante e qualche volta onirico, “Infinity” è ben eseguito con un fantastico lavoro di Ferrari alle tastiere, ma è la combinazione mellotron-pianoforte ad essere il piatto forte dell’intera proposta, che con i suoi temi ricrea quasi un’atmosfera da colonna sonora cinematografica. In Planetarium il lavoro alle chitarre è per lo più limitato a malinconiche esplorazioni acustiche, accompagnate dagli arrangiamenti orchestrali di Ferrari al moog, mentre le parti elettriche sono a larghi tratti influenzate dalla psichedelia . Alcune composizioni contengono effetti sonori, flauti e strumenti a fiato, che insieme rendono ancora di più l’idea da cinematografico.

Sfortunatamente i Planetarium non diedero un seguito a questo interessante debutto.Infinity è un album audace e considerato il tempo in cui venne pubblicato , decisamente più avanti rispetto al resto delle pubblicazioni dell’epoca. Per niente obsoleto, con un approccio magniloquente, l’album non è solo un’interessante scoperta di quel magma incandescente a livello di creatività che furono gli anni Settanta, ma anche un ascolto piacevole che desta la curiosità dell’ascoltatore man mano che procede nel minutaggio della tracklist . in altri termini, un disco avventuroso che combina musica classica e prog trip alla Soft Machine in cui il ruolo da protagonista è principalmente rivestito dalle tastiere. Assolutamente consigliato.

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