Recensione: Into Blackness

Di Roberto Castellucci - 5 Dicembre 2021 - 8:00
Into Blackness
Band: Bonded
Genere: Thrash 
Anno: 2021
Nazione:
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77

Your comfort zone will kill you. A qualcuno recentemente sarà capitato di leggere queste parole, che in Italiano potremmo tradurre pressappoco così: “la tua ‘zona di comfort’ ti ucciderà”. La frase è pane per i denti di tutti i motivatori (più o meno) professionali che si incontrano spesso negli open space, nelle sale riunioni o davanti alle macchinette del caffè di molte aziende. Da un punto di vista soggettivo quest’espressione può significare che, a forza di andare avanti con le nostre monotone vite in nome del benessere, c’è il rischio che prima o poi ci si stanchi, perdendo così interesse verso tutto ciò che il mondo può offrire. Recitata in un contesto pubblico, invece, la frase può aprirsi ad un’ulteriore interpretazione: operare ‘come si è sempre fatto’ senza apportare novità, o più semplicemente senza mai buttarsi in qualcosa di nuovo, potrebbe produrre effetti negativi non solo per noi, ma per tutta la comunità di cui facciamo parte, sia essa un’azienda, un club sportivo o una qualunque organizzazione costituita da due o più persone…come, ad esempio, una band. Proviamo ad applicare questo discorso alla storia dei Sodom: non credo che Tom Angelripper si sia rivolto a un motivatore professionale per decidere di rivoluzionare la line up della sua band nel 2018; me lo immagino molto più incline a mandarne uno a quel paese piuttosto che a chiedergli cosa fare dei suoi Sodom…fatto sta che il buon Angelripper ha abbandonato la sua comfort zone senza pensarci troppo su, mandando a casa i due sodali Bernd “Bernemann” Kost e Markus “Makka” Freiwald dopo anni di fruttuosa collaborazione. Quali sono state le conseguenze di questa inaspettata separazione? In primis, il distacco dai due vecchi colleghi ha portato effettivamente nuova linfa nel sound dei Sodom, che nel 2020 hanno pubblicato l’eccellente “Genesis XIX”. In secundis, abbiamo assistito con piacere alla nascita di un nuovo gruppo: i Bonded, la cui creazione ha concesso alla batteria di Makka e alla chitarra di Bernemann di rimanere in silenzio per pochissimo tempo. La band ci ha consegnato a Gennaio 2020 un ottimo esordio, robusto e ricco di adrenalina: “Rest In Violence”, questo il titolo dell’opera prima, ha convinto pubblico e critica con una tracklist potente e coinvolgente. Indimenticabile, una su tutte, la furiosa title track impreziosita dall’energica presenza al microfono di Bobby “Blitz” Ellsworth degli Overkill: la canzone “Rest In Violence”, oltre a essere una specie di manifesto programmatico per la band di Makka e Bernemann, è un brano destinato a rimanere negli annali del Thrash. Con il secondo disco, “Into Blackness”, i Bonded mostrano di non aver più bisogno di sdoganare il loro lavoro grazie alle partecipazioni illustri; i cinque musicisti ormai camminano con le loro gambe…o per meglio dire, corrono come indemoniati. Ad un primo ascolto di “Into Blackness”, infatti, colpisce subito una fondamentale differenza rispetto all’album precedente: l’incremento di aggressività generato dall’aumento della velocità di esecuzione dei brani. Attenzione: non che il precedente “Rest In Violence” fosse calmo e tranquillo, sia chiaro, ma sembra che durante la stesura della maggior parte dei brani di “Into Blackness” i Bonded abbiano deciso di installare un blocco sul metronomo. Le sporadiche parti in blast beat che facevano capolino qua e là nel primo album sono scomparse, ma in generale il ritmo di quasi tutte le tracce del nuovo disco rallenta molto di rado, tanto da far passare pressoché inosservati i rari momenti in cui il platter ci permette di riprendere il fiato.

Non crediate però di trovarvi fra le mani un disco monotono: il songwriting efficace garantisce quasi sempre il mantenimento dell’attenzione sui livelli di guardia, ma è soprattutto grazie alla performance vocale di Ingo Bajonczak, già all’opera dietro al microfono degli Assassin, che “Into Blackness” riesce nell’impresa di farci vivere costantemente col fiato sul collo. Il cantante sembra aver affinato parecchio le sue capacità rispetto a “Rest In Violence”: in questa seconda fatica si muove con facilità tra scream e suoni gutturali ad un passo dal growl, reggendo inoltre con maggior disinvoltura linee vocali melodiche nella cui gestione, a onor del vero, in “Rest In Violence” talvolta inciampava. Non di sola voce vive un disco, comunque: l’alchimia tra i cinque musicisti si percepisce con forza, sicuramente grazie alle indiscutibili doti tecniche e all’evidente esperienza di tutte le figure coinvolte, e l’analisi della tracklist non fa che confermare ciò che pare essere l’obiettivo comune dei Bonded: bombardare i fans con una serie di tracce veloci, rumorose e battagliere che non fanno certo rimpiangere la fragorosa title track del precedente album. Dopo “The Arsonist”, traccia introduttiva francamente saltabile a piè pari, iniziano le danze…e le randellate. I primi tre brani dopo l’intro rappresentano un tris d’assi fenomenale, con la quarta traccia, “The Holy Whore”, che riesce in qualche maniera a ricordare addirittura i Death: vuoi per la voce del cantante particolarmente graffiante, vuoi per l’incipit pacato e solenne che si evolve in uno spietato assalto sonoro, ma l’ascolto di questo brano istintivamente mi ha fatto venire voglia di aggiungere il mitico “Symbolic” alla playlist…ma torniamo ai Bonded. La successiva “Division Of The Damned” sembra rallentare un po’, ma si tratta di una sensazione illusoria: il brano è tutt’altro che leggero e i BPM rimangono su livelli medio-alti, per riprendere a pieno regime con la successiva “Into The Blackness Of A Wartime Night”. Il titolo della canzone espande il nome del disco portandoci a conoscenza di una delle principali tematiche dell’album: la guerra, vista tramite gli occhi dello scrittore Richard Rhys Jones e descritta dalla sua penna nel libro The Division Of The Damned, già citato nel titolo della traccia precedente e dichiarata fonte di ispirazione per alcuni testi di “Into Blackness”. Il brano inizia anticipando il tappeto sonoro dei ritornelli, accattivante e melodico, illudendoci anche in questo caso di trovarci di fronte a una sorta di lento. Niente da fare anche in questo caso: per il lento dobbiamo attendere “Destroy The Things I Love”, brano che di lento in realtà ha solo il ritmo, trattandosi di una composizione molto pesante e opprimente sia tematicamente che musicalmente. La seguente “Final Stand”, se possibile, è una traccia ancora più arrabbiata delle precedenti, utile per scaricare la tensione accumulata nel precedente “Destroy The Things I Love” e inserita purtroppo in una posizione un po’ scalognata, dal momento che anticipa l’unico brano davvero definibile come filler: “Ill-minded Freak”. La canzone fatica molto a decollare pur dando spazio all’interessante scream del cantante; si spera che nei prossimi dischi Bajonczak si ricordi di sfoggiare questa capacità vocale in brani più movimentati e coinvolgenti. Proseguendo con l’analisi della tracklist, dopo aver faticosamente sopportato i 5 minuti di “Ill-minded Freak”, ricominciamo fortunatamente con le badilate in pieno volto di “Way Of The Knife”, rapida e rabbiosa, e finiamo l’ascolto dell’album con le orecchie martoriate grazie all’ultima galoppata, “The Eyes Of Madness”: spiace dirlo ma nei ritornelli di quest’ultimo brano il cantante non soddisfa appieno…e in ogni caso non è niente di grave, trattandosi di piccoli episodi che non rovinano quanto di buono è stato fatto fino a questo punto.

In generale i Bonded con questa seconda uscita sembrano osare meno rispetto al disco di debutto, in cui il platter risultava lievemente più vario con la sua frequente alternanza fra ritmi Thrash veloci e assassini e momenti più groove e cadenzati. “Into Blackness” dimentica quasi totalmente il groove rimanendo a metà tra il Thrash teutonico e il Bay Area style, senza inventare nulla ma elaborando estremamente bene tutto ciò che la feconda tradizione Thrash ha prodotto finora. Eccezion fatta per l’inconsistente “Ill-minded Freak”, tutti gli altri brani sembrano creati con l’intenzione di far alzare il battito cardiaco degli ascoltatori; chiunque si metta all’ascolto dell’album non può che uscirne soddisfatto e con le ossa rotte. Piccola nota per i collezionisti e per i nostri lettori più curiosi: il disco ‘ufficialmente’ finisce con “The Eyes Of Madness”, ma ne circola un’edizione limitata con 2 bonus tracks che estendono il minutaggio del disco. Parlo dei brani “Humanity on Sale” e “Will To Survive”: il primo dei due, carino ma tutt’altro che indispensabile, è un brano lento, pesante e groovy che avrebbe le carte in regola per inspessirsi e incattivirsi, ma i Bonded preferiscono trattenere la loro giusta furia per incanalarla nel successivo “Will To Survive”. L’ultima traccia bonus, questa sì, passa continuamente da momenti molto cadenzati a ritornelli brutali, immettendo nel disco quella varietà consapevolmente arginata dai Bonded nella tracklist ufficiale. L’ascolto delle due canzoni aggiuntive, data la loro diversità rispetto al platter principale, fa quasi pensare che si tratti di brani esclusi da “Rest In Violence”…in ogni modo, con o senza le due tracce bonus, se l’intento dei Nostri era quello di dare alle stampe un album diretto, divertente e senza fronzoli, è inevitabile ammettere come il bersaglio sia stato centrato in pieno. Forse non serve ribadirlo ma, con il suo coraggioso sconvolgimento nella scelta dei collaboratori, pare proprio che il buon Onkel Tom Angelripper ci abbia azzeccato anche questa volta…lunga vita ai Bonded e buon ascolto a tutti!

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