Recensione: Into the Maelstrom

Di Fabio Vellata - 2 Giugno 2020 - 14:16
Into The Maelstrom
Etichetta: Fighter Records
Genere: Heavy  Power 
Anno: 2020
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
76

Un bell’heavy, corposo, sincero, alla vecchia maniera.
È senz’altro un buon disco questo secondo capitolo discografico dei “nostri” Hyperion, band che sin dall’impatto garantito dalla copertina, denota una innegabile professionalità nella cura di tutti gli aspetti inerenti al progetto musicale posto in essere.

Allineando influenze che fanno della classicità un vanto ostentato con orgoglio, il quintetto bolognese si definisce come si soleva fare un tempo. Semplicemente “heavy metal”.
Una scelta, dati i tempi in cui le sofisticazioni e la ricerca della catalogazione più atipica imperano, quasi coraggiosa.
Così è: tanti riflessi di Iron Maiden, Judas Priest e Mercyful Fate. Acceni di Megadeth ed Annihilator. In più, una bella dose di Metal Church.
Italiani ma dal respiro decisamente internazionale, insomma.
Sempre in bilico tra NWOBHM e US Metal, “Into The Maelstrom” è un disco, come comprensibile sin dalle prime note, probabilmente un po’ demodè nell’impostazione formale.
Giocato su suoni di chiara radice eighties, matura con il passare degli ascolti, mettendo in evidenza il peso specifico di musicisti visceralmente legati alla tradizione e per nulla attratti da alcunché che possa definirsi moderno.
Fosse uscito nel 1987 sarebbe stato un fulgido esempio di quell’Heavy Metal tricolore oggi un po’ mitizzato. Un sussulto heavy perfettamente inserito nel contesto di una scena, sotterranea ma assai ben nutrita, come quella che nostalgicamente i più stagionati di noi ricordano.

Ed è proprio per tale ragione che questo buonissimo estratto di heavy puro, incontaminato, “chirurgico”, ha il piacevole merito di proporsi come una sorta di trait d’union con le memorie passate. Pur mostrando di non essere roba stantia o ammuffita, le sensazioni che richiama arrivano da lontano ed hanno il buon sapore della tradizione, ossequiata con deferenza e rispetto.
Echi maideniani “prima maniera”, armonie taglienti ed intrecci alla Metal Church caratterizzano un prodotto che ha nella buona cura dei suoni amministrati da Roberto Priori (ascia storica dei Danger Zone) uno dei punti di forza migliori e più performanti.
Asciutti, precisi e ben definiti. Esattamente come necessario.
Molto gradevole anche l’artwork, accattivante e d’impatto, opera di Akirant Illustrations (attuale artista di riferimento proprio degli Iron Maiden). Un elemento che, da sempre, ha avuto un posto di rilievo tra quelli osservati con interesse dai fan legati al concetto di cd (o LP) come oggetto da collezione.
Se un disco ha una bella copertina, di solito parte già con un paio di punti di vantaggio. Negli anni passati era un leit motiv abituale cui gli Hyperion, sempre in ossequio alla loro anima profondamente ottantiana, sembrano voler prestare attenzione ancora oggi.
E pure con un discreto successo, potremmo aggiungere.

Il singolo “Driller Killer“, le derive thrash della title track, l’epicità di “The Ride of Heroes” e lo speed metal della finale “Bridge of Death” i momenti migliori di un cd non propriamente originale ma in ugual misura condito da una serie di buoni elementi tali da renderne piuttosto elevato il livello sostanziale.
Nulla da invidiare a qualsiasi uscita di fascia medio-alta del settore. La voce del singer Michelangelo Carano, così come la qualità dei singoli possono competere ad armi pari, offrendo qualche soddisfazione agli amanti di suoni assolutamente classici.
O vecchio stile.
Anni ottanta se volete…

Meglio: “Heavy metal“.
E fine del discorso.

 

 

Ultimi album di Hyperion (Ita)