Recensione: Inveighing Brilliance

Nuovo arrivo in casa Nuclear Blast Records: si tratta dei Tribal Gaze che, grazie all’etichetta teutonica, danno alle stampe il loro secondo full-length in carriera, “Inveighing Brilliance“.
La band viene dal Texas, ove è nata nel 2020 e, quasi come le sabbie dei deserti di questo luogo avessero un’influenza in qualche modo sul sound del disco, il death metal proposto dai Nostri ha come caratteristica principale la scabrezza. Come se fosse sporco, in qualche modo. Soprattutto per ciò che concerne le chitarre, dal suono potente, robusto, da segare le ossa ma con quella punta di ferro arrugginito che i Nostri sono riusciti a infilare nel loro stile in maniera tale da tentare di renderlo originale.
A proposito di stile, si tratta fondamentalmente di old school, che però fa suo il modo di realizzare un disco nel 2025. Vecchio e nuovo che si scontrano continuamente per un ossimoro che, questo sì, è rappresentativo principale di un suono che allo stesso tempo odora un po’ di stantio e di fresco. Si tratta di un risultato più che sufficiente, che aiuta a identificare il marchio di fabbrica dell’act statunitense in mezzo a tanti altri, certificando così l’affermazione inerente la vivacità di uno stile riconoscibile all’orecchio.
Il quintetto di Longview non inventa nulla, questo è bene sottolinearlo, tuttavia ciò che propone è un innesto ben riuscito, sull’anima della vecchia scuola, di propaggini rifinite con alcune delle peculiarità del death d’oggi. Il secco, roco growling di McKenna Holland, non particolarmente profondo, ha poco aggiungere e poco da togliere al canonico modo di interpretare le linee vocali (“To the Spoils of Faith“), nel senso che seguono l’iter classico stabilito dai dettami di base del death, seppure qualche suinata s’innalzi qua e là.
Nemmeno le chitarre di Quintin Stauts e Ian Kilmer si spremono in maniera diversa dal solito. Oltre a gusto di ruggine si può rinvenire il classico sentore di stantìo proveniente dai cadaveri in decomposizione. I toni ribassati e la tecnica del palm-muting utilizzata al massimo delle sue possibilità donano alle sei corde un suono compresso, poderoso, che non ha poi molto a che vedere con quello, zanzaroso, dell’old school. Da rilevare la bontà degli assoli, che lacerano la carne come una lama affilata (“Lord of Blasphemy“); unitamente a un ritmo che abbraccia le varie battute compreso le sfuriate dei blast-beats (“Guarding the Illusion“). Non solo, in alcuni passaggi si percepisce qualche stacco e immediata ripresa che ricordano gli stop’n’go del deathcore. Anche se, qui, di deathcore non ce n’è nemmeno l’ombra.
Qualcosa di puro old school c’è, comunque. “Emptying the Nest” ne è l’esempio. Classico andamento da headbanging perenne, condotto con forza e con il tipico ritmo strascinato a là Dismember. I già citati blast-beats aiutano a tenere su l’energia del brano, fra una divagazione del basso di Zach Denton e l’altra che, così facendo, interrompono la monotonia di un avanzamento altrimenti monocorde.
Nel disco sono comprese, pure, delle bordate allo stomaco da paura, come la violentissima “Guarding the Illusion” che, nonostante cali di intensità nella parte centrale, mostra la capacità del gruppo statunitense di pestare sodo, se intende farlo. E, a proposito di canzoni, il loro insieme mette a dura prova l’apparato uditivo degli ascoltatori, vista la loro varietà, in primis, e la loro varietà al loro interno (“The Irreversible Sequence“). Se ciò può in qualche modo tenere lontana la noia, dall’altro rende assai complessa l’assimilazione delle stesse. Tenere assieme i più disparati fattori che, come un puzzle, s’incastrano per generare l’LP non è operazione per nulla semplice, e i Tribal Gaze ci riescono – almeno a parere di chi scrive – a metà.
Il che non è una bocciatura, dato che il songwriting lascia ampio margine al miglioramento. Miglioramento compositivo volto a focalizzare maggiormente uno stile che, davvero, se legato strettamente assieme alle sue divagazioni, potrebbe diventare importante. Per questo, “Inveighing Brilliance” può considerarsi come un’opera di transizione.
Daniele “dani66” D’Adamo
