Recensione: Jugulator

Di sk - 8 Aprile 2004 - 0:00
Jugulator
Band: Judas Priest
Etichetta:
Genere:
Anno: 1997
Nazione:
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65

Pubblicato nel 1997 dopo 7 anni di silenzio senza Rob Halford, è una vera pietra dello scandalo per i fans storici dei Priest. Il sound è completamente diverso dal classico Heavy a cui si era abituati: una svolta thrash con inserti eletronici. Il risultato è terribilmente moderno, forse senza melodia ma con cambi di tempo incredibili e ritmiche serrate a devastare i timpani. A disorientare ulteriormente è la struttura dei pezzi, sempre irregolare, diversamente dalle altre release i cui brani erano quasi sempre rigidamente inquadrati. Se a queste innovazioni si aggiunge la voce e la diversa impostazione (anche in sede live) di Tim “Ripper” Owens si ottiene di fatto una band diversa, che non ha più nulla in comune con quella precedente, nemmeno lo storico logo in copertina.
Senza fare considerazioni su quale sia il target di pubblico dell’album, si può pensare che il gruppo abbia voluto innanzitutto rinnovare se stesso e la propria musica: tutti i testi sono di Glenn Tipton (senza Halford sempre più leader), le parti strumentali sono sparite mentre le distorsioni industrial fanno da intro a quasi ogni canzoni. Niente più duelli tra le chitarre, impegnate solo in distruttivi riff, alla lunga ripetitivi.
Il cantato di Ripper è bello e tecnicamente ineccepibile: pulito e potente, è probabilmente migliore nei toni bassi di Rob; però quando si parla di acuti (ed in Jugulator ce ne sono molti) Tim non sta dietro al “Metal God” (ma chi potrebbe starvi dietro?). La batteria è un supporto costante e contribuisce a rendere ancora più pesante il disco, scordatevi però le scorrazzate di Painkiller. La registrazione e la produzione dell’album hanno richiesto quasi 2 anni ed in effetti i refrain sono estremamente curati, con effetti sonori ben studiati e riusciti.
L’album in sé è compatto anche perché le canzoni si assomigliano un po’ tutte: le varie “Dead Meat”, “Decapitate”, “Brain Dead” e “Abductors” non sono particolarmente fantasiose dal punto di vista melodico e tutto il lavoro è molto lungo (tutte le canzoni sono sopra i 4 minuti: “Breaking the Law”, 2:35!). Originali sono “Jugulator”, “Death Row” (con la telefonata iniziale) e soprattutto l’affascinante “Burn in Hell”, in un crescendo in potenza. Poi si segnalano “Blood Stained” e “Bullet Train”, canzoni meglio riuscite nel “Live Meltdown” (tentativo di far conoscere meglio Ripper nei luoghi non toccati dai tour). Una nota speciale la merita anche la finale “Cathedral Spires”, 2 minuti per una ballad che si apre poi in una canzone la cui durata permette ai Priest di fare quello che vogliono (anche di renderla a tratti banale).
I testi sono una nota positiva dell’album, con varie tematiche che vanno dalla politica alla pena di morte, fino all’eutanasia, oltre al fantastico e rabbioso come nella titletrack.
Il disco appassiona a chi piace il Thrash-Heavy moderno, seguaci dei Pantera, Machine Head e In Flames. Per chi ama i Judas Priest, il disco sarà fonte di perplessità per poi stupire ed appassionare nelle singole canzoni.

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