Recensione: Kingdom Of Rust

Di Roberto Gelmi - 18 Gennaio 2014 - 21:03
Kingdom Of Rust
Band: Rustfield
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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70

Sullo scorcio dell’anno appena trascorso, una giovane e talentuosa band piemontese ha visto pubblicato (per la teutonica Massacre Records) il suo primo album, che raccoglie  e tenta di dare un’identità unitaria alla decina di brani concepiti e scritti in più di un lustro di carriera.

«I Rustfield nascono nel 2007 da un’idea in tempi dispari di Davide Ronfetto, chitarrista e polistrumentista, che coinvolge subito l’amico di lunga data Andrea Rampa». Così la band italiana si presenta nel breve profilo biografico presente sul proprio sito ufficiale. Definiscono il loro sound una miscela di heavy metal, musica elettronica, progressive e musica psichedelica, senza dimenticare una giusta dose di orecchiabilità e melodia. Con questi presupposti non possiamo che sperare in bene.
“Kingdom of Rust” veste una copertina color ruggine (come nei lunghi piano-sequenza del film “Stalker” di Andrej Tarkovskij), su cui spicca il monicker della band, contornato da un filo spinato, che indica la dicotomia portante dell’album, quella tra il paesaggio (mal)-antropizzato e la natura tout court. Torna alla mente l’artwork di “The Immunity Zone” degli Andromeda e i testi degli svedesi circa la miopia dell’umanità dei nostri tempi, che pensa di essere al sicuro in città artificiali, senza preoccuparsi delle conseguenze ambientali e etiche di uno stile di vita sprovveduto.

Veniamo ora alla musica.
L’opener “Among the fields of rust” ha valore programmatico nel suo sviluppo, prima heavy, poi con ritmi più ariosi e atmosferici. «I testi riflettono appieno questa dualità affiancando due paesaggi completamente differenti l’uno dall’altro: il primo, una città soffocata dal cemento armato e dal metallo, il secondo, un immenso campo di grano accarezzato da una fresca brezza». Buon esordio, ma gli acuti iniziali risultano poco memorabili, la produzione compromette il guitarwork di Ronfetto e l’originalità della canzone, che inizia prepotente per poi spostarsi su lidi lisergici, trova il suo limite proprio in questa divisione troppo marcata. Da segnalare, invece, la bellezza delle linee vocali di Andrea Rampa quando si mantiene su registri medio-bassi: ricordano a tratti le tonalità calde e dimesse di Jasper Steverlinck (Arid, Guilt Machine).

Con la seguente “Waxhopes”, siamo di fronte a una composizione granitica che tratta il mito di Icaro, dopo i Maiden (di “Flight of Icarus”), gli Angra (di “Metal Icarus”) e tante altre band più o meno blasonate. Special guest, Federica De Boni (Whiteskull), che dà grinta aggiuntiva a un brano già di per sé esplosivo. Il solo di sintetizzatore di Douglas R. Docker, al min. 5:28 (circa), è puro space metal e può ricordare quello di Jordan Rudess in “A Rite of Passage”. Brano convincente, forse dal minutaggio troppo prolungato.
Quasi un filler, invece, “Losing Time”, traccia ben arrangiata, ma dai ritmi troppi blandi. A risollevarne le sorti non bastano i tempi dispari, sfoggiati nelle parti di batteria, e un testo che vuol essere «un dialogo tra se stessi e il proprio migliore amico riguardo al tempo perso a inseguirsi nel bosco della vita».

“Love Moan”, prima ballad (acustica) dell’album, attacca in modo flebile, come s’addice a un elegia d’amore; in questo caso, amore tragico tra una madre iperprotettiva e una figlia vittima. Il contrabbasso, suonato da Luca Spagnuolo è toccante, così la prova di Rampa, che a tratti evoca l’ugola di sir Mikael Åkerfeldt: sembra proprio che il cantante italiano dia il meglio quando non spinge troppo l’acceleratore.
Intro sabbathiano per “Burning the Air”, brano che riporta il disco su lidi prog. metal e apre la “Trilogia del compromesso” (sulla falsa riga di “A Mind Beside Itself” dei Dream Theater?), che tratta di guerra, ipocrisia e, più in generale, dell’eterno bellum omnium contra omnes. Un riff “sporco”, sostenuto da una doppia cassa cadenzata, e tastiere futuristiche creano una commistione a tratti ben riuscita. Non convince, tuttavia, una certa ripetitività di fondo.

“Sacrifice” prosegue sulla falsa riga del pezzo precedente. Tappeti di tastiera vicini al pathos del Kevin Moore che fu, ma le linee vocali sono a tratti inascoltabili. Outro caratterizzato da un sagace impiego di musica elettronica e repentino attacco di “Social contract”, con un basso pulsante e sound quasi da colonna sonora videoludica: di sicuro il punto apicale della Trilogia.
“The secret garden” è la seconda ballad dell’album, cameo di rara finezza e sentimento. Nostalgia di un Eden perduto e dell’impossibile: «Una fortezza si erge laddove deserto e cielo s’incontrano, e nasconde al suo interno un giardino segreto colmo di rigogliose piante fiorite». Tra i momenti migliori e più memorabili di Kingdom of Rust, consigliato a tutti gli amanti della buona musica.
“Run with me” ha un attacco caratteristico con synth alla “Final Countdown”. Rampa si spinge su registri alti e tenta di emulare il grande Fabio D’Amore (Pathosray, Fairyland), ma con esiti incerti. Un buon assolo di Ronfetto impreziosisce il brano, ma si poteva osare di più.

L’album volge quasi al termine, non prima, però, di un gran finale sontuoso. La strumentale “Out of the blue” (ben nove minuti di prog. metal per palati fini) vede un Macaluso finalmente incisivo e tante buone idee in fase compositiva; tastiere “di cristallo” e guitarwork che non eccede per tecnicismo. Attorno al terzo minuto, la composizione s’adagia su sonorità vellutate e psichedeliche. I nostri invitano l’ascoltatore a lasciar vagare l’immaginazione tra echi onirici e sonorità trascendentali: a un tratto, tra i fulgori di un sitar (sintetizzato), note di chitarra semiacustica paiono cantare un adagio intriso di melanconia. Il brano strumentale si conclude con un Ronfetto sugli scudi e un unisono chitarra-tastiera-basso al fulmicotone.
I ritmi s’acquietano e uno sciabordio d’onde marine dà avvio alla suite finale in tre tempi, “High waters”. La lunga traccia può essere considerata, insieme all’opener, l’altro vero manifesto dei Rustfield. I nostri ci traghettano in un viaggio per mare, raccontando di «come sia facile essere vittime di inevitabili tempeste che allontanano da rotte conosciute e sicure, portando verso acque alte e selvagge». Fuor di metafora, si tratta dell’eterno mistero della vita, tra incertezza e dolore. Al min. 5:07, una voce narrante femminile recita, in italiano, il seguente assunto: «Una volta che una persona cambia il rapporto che ha con il suo ambiente, non può tornare allo stato di beata ignoranza che lascia. Il movimento per necessità implica un cambiamento di prospettiva». Segue una repentina esplosione sonora e un bell’assolo (questa volta d’hammond) di D. R. Docker. Le chitarre suonano abrasive, in stile Fates Warning, e il pezzo riparte in un crescendo in doppia cassa. Mentre Rampa prova a strafare, delle campane in postproduzione danno un tocco solenne all’epilogo della suite. Finezza conclusiva, il ritorno circolare del soundscape marino.

È la volta, ora, di qualche considerazione complessiva. La proposta musicale dei Rustfield è coraggiosa, s’iscrive nel filone prog. metal più stereotipato, ma prova a rivitalizzarlo grazie a una particolare attenzione  per le tastiere e a un parco, ma accorto, uso di musica elettronica. Non ci sono derive dal tecnicismo manierato e nemmeno assoli chilometrici senza capo né coda (aspetto che avrebbe potuto contrariare i detrattori dei Dream Theater attuali). I brani, pur composti a distanza di tempo, si susseguono in modo ottimale e danno all’album una sua coesione interna. La presenza di special guest illustri (J. Macaluso, F. De Boni, D. R. Docker) è opinabile: una band all’esordio dovrebbe mostrare quanto sa fare senza poggiarsi sulla notorietà altrui. D’altra parte, i nostri sono riusciti a valorizzare la prova degli ospiti suddetti ed è comprensibile vogliano farsi un po’ di sana pubblicità.

Tra i difetti macroscopici del platter, spicca la produzione poco azzeccata, soprattutto quella delle chitarre: in tal senso, il combo piemontese dovrebbe avere DGM e Kingcrow come punto di riferimento (budget permettendo ovviamente). L’assenza di una vera killer-song dai ritmi indiavolati (anche se non stiamo parlando di power metal) e la prova opaca di Rampa in falsetto sono ulteriori punti a sfavore. I Rustfield dovrebbero valorizzare maggiormente il loro lato atmosferico e intimista, e inserire qualche ballad in più nel prossimo album, puntando sulla qualità dei testi che mettono in campo.

Comunque un ottimo debutto, sulla falsa riga di altre band italiane come Astarte Syriaca, Astra, Moonlight Comedy, Sinestesia e Solid Vision.
Ci sentiamo, altresì, di accostare, mutatis mutandis, il sound dei piemontesi a quello dei The Aurora Project, dei Riverside e dei già citati Fates Warning; certamente non vanno chiamati in causa i Symphony X (come sostenuto da alcuni), né i Dream Theater, se non in minima parte.

Speriamo, dunque, che i Rustfield continuino sulla retta via e non perdano la loro vena compositiva migliore. Fa sempre piacere scoprire dei giovani talentuosi che vogliono cambiare il mondo con la propria musica.

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