Recensione: L’Abime Dévore les Âmes

Di Daniele D'Adamo - 15 Aprile 2022 - 0:00
L’Abime Dévore les Âmes
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A distanza di nove anni dalla loro nascita, per i misteriosi Viande è finalmente arrivato il momento del debut-album: “L’Abime Dévore les Âmes”.

Misteriosi perché si sa ben poco, di loro. Misteriosi, soprattutto, poiché la loro proposta musicale rivela un’attitudine radicata a manifestare le proprie idee in modo si direbbe celato, nascosto, lontano da occhi indiscreti.

Il death metal da essi elaborato è nero, oscuro come pochi; con ciò non lasciando intravedere praticamente nulla di quello che si nasconde lì sotto, nelle profondità della Terra. Ne deriva una sensazione d’inquietudine, di malcelata angoscia, che si materializzano nella mente come gelide stille di terrore. Terrore di non riuscire a discernere le tetre sagome che strisciano, si agitano nel buio.

Questi singulti emotivi, dal sapore puramente lisergico, trovano il loro lievito fecondante nei tuberi maligni che si dipartono da una struttura musicale monolitica, compatta, inestricabile se si intende osservarne le membrature. Death metal apparentemente rozzo e involuto, dalle dissonanze arcaiche che si radicano nel vuoto degli eoni.

La voce di J, infatti, fa spavento per la sua malignità, intrinseca in un roco growling primordiale, totalmente inintelligibile. Una sorta di rantolo bestiale che richiama demoni dai nomi impronunciabili onde sostenere le scorribande della chitarra di B. Genitrice di un riffing rigorosamente disarmonico, a volte straziante per l’orecchio, foriero di orride scorribande nei spaventosi territori in cui alberga M, disarticolato batterista che sconquassa le budella con i suoi violentissimi blast-beats. Anche il basso (non si sa per mano di chi) si accorda con il resto della strumentazione, fungendo da pauroso rombo che, in sottofondo, scava immaginarie gallerie volte a scendere sempre più nelle viscere del globo terracqueo.

Il tutto miscelato con raggelanti elementi ambient, lugubri orchestrazioni, suoni e rumori non bene identificabili ma proprio per questo efficaci nell’economia dello stile. Stile che, pur non essendo particolarmente originale, riesce comunque a raccogliere tutti i tasselli più sopra identificati per dar vita a un qualcosa che sia costantemente e strettamente legato al combo transalpino.

La fedeltà a se stessi è totale: nel disco non c’è nemmeno una nota che non faccia parte di un disegno frutto di menti presumibilmente malate. In particolar modo quando il numero di BPM scende rapidamente, per far sì che entri bene in testa di chi ascolta l’orrore natio, il raccapriccio di un’esistenza senza speranza, destinata inesorabilmente a sciogliersi nel nulla.

Il platter provoca senz’altro un coinvolgimento passionale di non poco conto. La sua forza visionaria è potente, estesa e traente come le sabbie mobili. In questo, il terzetto francese si mostra talentuoso e assai abile per la bisogna.

Più complesso ragionare sulle singole canzoni. Sì, perché un approccio usuale le porterebbe a farle sembrare identiche le une alle altre. Il che non andrebbe affatto bene. Oppure, modificando metro di giudizio, si potrebbe osservare l’LP come se fosse composto da una sola, singola suite, con gli intermezzi coincidenti con le canzoni stesse. Il che cambierebbe la percezione di “L’Abime Dévore les Âmes” nel suo complesso. In tutti e due i casi, però, il concetto di brano sarebbe, si può dire, mortificato dalla ricerca ossessiva ed esclusiva del sound nel suo complesso, a vece di un songwriting più rispondente al rispetto dell’identità delle varie tracce.

Traendo le conclusioni, comunque sia i Viande riescono a attivare, e bene, la parte più emozionale dell’anima. A parere di chi scrive, però, questa filosofia musicale porta a un’opera incompiuta, lasciata a metà. Il che può piacere ma anche no.

Daniele “dani66” D’Adamo

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