Recensione: Last Day On Heart

Di Pasquale Ninni e Leonardo Ascatigno - 31 Marzo 2021 - 8:30
Last Day On Heart
Etichetta: Autoprodotto
Genere: Heavy 
Anno: 2020
Nazione:
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70

Gli appartenenti alla controversa Generazione X (secondo gli studi sociali appartengono a questa generazione i nati tra il 1965 e il 1980) hanno avuto modo di vivere, seppur nella scarsa definizione della loro identità sociale, eventi storici epocali, passaggi culturali fortemente caratterizzanti (basti pensare quello che sono stati gli anni ’80 e gli anni ’90) e, per sintetizzare, immersioni totali nella cultura popolare che poi, di fatto, ha fortemente segnato, a tal punto da guardarli oggi con carezzevole nostalgia, gli appartenenti a questa dibattuta generazione.

Tra gli archetipi caratterizzanti che i più ricordano di quegli anni (’80-’90) troviamo la trasmissione in differita, il sabato sera alle 22:30 su una nota emittente commerciale, del Wrestling americano commentato dal mitico e leggendario Dan Peterson. Durante la trasmissione, intitolata Superstars Of Wrestling, i telespettatori potevano assistere alle evoluzioni dei “lottatori” i quali, tra le diverse mosse, alla fine, appagando il gusto degli appassionati, mettevano a segno la loro mossa finale facendo leva su quello che sapevano fare meglio e che, contestualmente, compiaceva i deliranti fan. Quindi Hulk Hogan piazzava il suo famigerato Leg Drop, Jimmi Snuka Superfly la sua aerea Superfly Splash, Ted DiBiase la “dolorosa” Figura 4 (per dirla alla Peterson), Jake “The Snake” Roberts il suo letale DDT e via dicendo. Queste erano le loro mosse caratterizzanti, le loro abilità specifiche che, al netto del proprio repertorio, li distinguevano tra loro.

La lezione, presa a mo’ di esempio dal mondo del Wrestling ma che trova proseliti in tantissimi altri campi, è stata ottimamente recepita da Pedro Antunes leader della band brasiliana Metalomaniacs. La mossa finalizzata da Antunes è molto semplice e, come per i wrestler citati, si caratterizza da una specifica abilità che rende l’album ‘Last Day On Earth’ piacevole e gradevole sin dai primi ascolti, vale a dire: le melodie della voce. Queste emergono prepotentemente durante l’ascolto dell’album e in taluni casi si issano nella mente e continuano a cantare anche a lettore CD spento. Prova di questo sono le bellissime ‘Last Day On Earth’, ‘High Speed Race’ o ‘The Doomsday Clock’.

La regola che detta la composizione del disco è un sistema molto semplice e piano: oltre alla cura delle linee melodiche l’importante è non aderire espressamente a nessun genere/sottogenere del Metal. Infatti, dopo un inizio che rappresenta forse la parte più deludente dell’intero lavoro, non sarà difficile trovare nei brani richiami al Thrash dei Testament o degli Anthrax, lontane evocazioni Speed old school, alcune sfumature vocali che lambiscono il James Hetfield dei migliori anni o addirittura accordi che per sequenza e ritmiche ricordano il Punk degli Offspring.

Tutto questo, comunque, non rende l’album né disomogeneo né disorientante, anzi il tutto è suonato con coerenza senza esagerazioni barocche offrendo a ‘Last Day On Earth’ la possibilità, più reale che presumibile, di candidarsi come una delle sorprese più interessanti della fine del 2020.

Analizzando nel dettaglio il disco, avente una copertina tra il sexy e il disagiato, emerge, come già scritto, che l’intro appare un po’ fine a sé stesso, ma lascia intendere del buono e soprattutto, cosa non scontata, lascia intravedere il livello tecnico dei musicisti. Di certo non eccelle in originalità, ma le parti ritmiche di chitarra sono molto godibili, complice il buon lavoro dietro al banco dello stesso chitarrista Pedro Antunes fatto nei suoi Panga Studio; lui è il principale autore delle musiche, infatti ha anche registrato tutte le parti di basso, e dei testi. Come già scritto, durante l’ascolto riecheggiano sonorità Thrash dei primi anni ’90, ma con un pizzico di freschezza e di modernità nel sound.

La timbrica del singer Mateus Durans in ‘Last Day On Earth’ a tratti ricorda Rob Halford quando si cimenta con tonalità medio-basse e questa caratteristica è presente, in realtà, anche nei brani a seguire. A proposito del cantato, indipendentemente dalle melodie, emerge il sospetto che forse sarebbe stato opportuno un cantante avente delle caratteristiche più adatte al groove della band. Per chiarezza: nelle parti simil punk il tutto si amalgama abbastanza bene, ma nelle parti più spinte e fast la voce del sopracitato Durans non impreziosisce il brano. Sembra quasi essere fuori contesto. I chorus di tutto il platter al primo ascolto sono a tratti fastidiosi, mancano di incisività. Ciò è dato dalla sensazione di vuoto in quelli che forse potevano essere pensati e messo in pratica come cori da stadio, ma che restano per voce sola. Peccato perché alcuni temi, come anticipato, sono davvero molti convincenti.

In ‘Hold You’ emergono però le capacità tecniche del già citato Pedro Antunes alle chitarre, molto propenso a utilizzare tecniche di plettrata alternata. Notevole la sferzata finale dell’assolo del brano. Gli Annihilator in persona, almeno se teniamo conto del loro lato più ironico, sembrano impossessarsi degli strumenti in ‘Weapons Of Mass Corruption’. L’attitudine del combo in questa canzone diventa davvero invidiabile e ci regala un momento di sana nostalgia Metal. Il tutto impreziosito dalla precisione maniacale di alcuni passaggi, non solo per le parti chitarristiche, ma anche per il “vano motore”. Non è da meno Cézar Santon alla batteria, un batterista che conosce il proprio lavoro ed è un’ottima macchina che gioca sul groove tanto quanto sulla ricerca del fill più indovinato e fluido possibile. Dai credits della band notiamo nella line up l’innesto di Marcelo Ribeiro al basso, dunque nello sviluppo del lavoro ci si aspettano grandi cose da lui.

L’atteggiamento nel complesso è quello divertito e festoso, forse i conservatori, o i puristi, non riusciranno a trovare una facile collocazione del disco nell’alveo di un genere definito, ma si potrebbe azzardare un piccolo accostamento (non certo per il sound) ai Galactic Cowboys, soprattutto se si facesse mente locale su quella che all’inizio può essere una leggera situazione di smarrimento da parte dell’ascoltatore.

In alcuni passaggi la rabbia si scatena in modo inaspettato ed è questo quello che conta: un sano headbanging come quelli di una volta (sempre per essere nostalgici). ‘I’m So Cool’ e ‘Rock Isn’t Dead’, di certo i brani più punk-oriented in assoluto, sono la prova di quanto già detto.

In definitiva un disco da ascoltare e che non lascerà delusi a patto di mettere da parte la ferma volontà di etichettarlo a tutti i costi, si rischierebbe di cadere nell’errore di essere forzatamente conservatori, puristi, talebani e custodi della fede e di farsi condizionare al cospetto di un album che, rispettando la tradizione ma oltraggiando la preservazione di una specifica identità, merita di essere attenzionato e ascoltato.

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