Recensione: Last In Line II

Di Francesco Maraglino - 25 Febbraio 2019 - 0:08
II
Band: Last in Line
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2019
Nazione:
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78

Nel 2016 sono tornati a far musica tutti insieme appassionatamente il chitarrista Vivian Campbell, il bassista Jimmy Bain e il batterista Vinny Appice. Sì, parliamo proprio dei celeberrimi musicisti protagonisti dei primi tre album di Ronnie James Dio, “Holy Diver”, “The Last in Line” e “Sacred Heart”, amatissimi masterpiece dell’heavy rock.
I tre si erano, in effetti, ritrovati per una jam session  tre anni prima, ma avevano aspettato diverso tempo prima di dar vita ad un lavoro discografico.
“Heavy Crown” (questo il titolo del CD realizzato a nome Last In Line all’epoca), è stato un poi indiscutibilmente un successo di critica e pubblico, anche grazie all’apporto dell’ugola d’oro del vocalist Andrew Freeman (capace, dal vivo, di sentirsi a proprio agio persino nei brani dei Dio). Nel frattempo, purtroppo, il destino ha portato via Jimmy Bain, scomparso proprio a gennaio 2016 all’età di sessantotto anni. I Last In Line hanno portato a bordo, così, il nuovo bassista Phil Soussan (ex-Ozzy) ed hanno fatto ascoltare l’album in giro per spettacoli e festival, anche come supporto di gente del calibro di Saxon e Megadeth.
Infine, nel 2017 la band è tornata in studio a L.A. per incidere un nuovo LP, ancora una volta con il produttore Jeff Pilson (Dokken, Foreigner).

Il nuovo album, intitolato semplicemente “II”, dopo un’Intro breve e minacciosa, s’incanala sul percorso di un hard/heavy rock classico, roccioso e ottantiano del precedente, sebbene con qualche interessante novità.

Cominciamo da queste ultime. Black Out The Sun, aperta da un possente break di batteria, è condotta da tamburi, basso e riff di chitarra martellanti, i quali scandiscono un hard rock midtempo possente con echi inediti di alternative metal, grunge e rock duro contemporanei (già il titolo è evocativo in tal senso). La voce si staglia potente tra i decisi assoli di Campbell.
In Gods And Tyrants il basso pulsa incessante conferendo alla canzone un andamento groovy e, anche qui, più legato al rock contemporaneo. Questo mood si alterna, però, a momenti più riflessivi così come a  cavalcate sonore solcate da assoli e riff circolari di chitarra.
False Flag, poi, intervalla fasi cupe ad accelerazioni veloci e grintose.

Un altro lotto di canzoni richiama, altresì, al più tipico suono pesante (e melodico) caro a chi ha vissuto, musicalmente, gli anni Ottanta del secolo scorso. Year Of The Gun, ad esempio, è trascinata da basso, batteria e chitarra che aggrediscono l’ascoltatore come un sol uomo disegnando un travolgente heavy rock, vorticoso ed irruente, che si configura come  uno dei brani migliori del disco.
Landslide è ancora più veloce ma anche più melodica, e si caratterizza per un chorus epico, per il canto qui graffiante di Freeman, nonché per i ghirigori e le staffilate dell’ascia.
Electrified, poi, esalta per il suo hard rock classico e nervoso, tempestato da riff circolari e guizzanti assoli.

Altrove i Last In Line guardano ancora più indietro, al sound dei seventies. Give Up The Ghost , infatti, è un possente midtempo con echi zeppeliniani pur se  cosparso di qualche cromatura tipica del decennio successivo.
The Unknown, ancora, è una traccia alquanto originale con sprazzi quasi onirici pur se sempre in un ambiente heavy. La voce, qui, sale e scende tra vette grintose e pianeggianti momenti più riflessivi, mentre la sei-corde spadroneggia per tutto il brano.
The Light, infine, pur aprendosi come ballata elettrica e ingannando, all’inizio, l’ascoltatore, facendo credere ad un unico momento di tregua in mezzo al campo di battaglia heavy pressoché perenne dell’album, riparte immediatamente come hard rock dai tempi medi e contrassegnato dal solito contorcersi  di chitarre e dal consueto picchiare di tamburi (ma anche da qualche fugace rallentamento).

In definitiva, “Last In Line II” è un’opera che conferma l’ottima impressione suscitata dal suo predecessore. Pur non esibendo spunti originali ed innovativi, e collocandosi forse un poco al di sotto di “Heavy Crown” sul fronte del songwriting (vedi qualche brano meno brillante, a nostro parere, come il troppo “consueto” Sword From The Stone e il veloce e drammatico Love And War), ha dalla sua parte una grande energia ed un’ottima produzione,  dai suoni solidi e profondi, e capace di valorizzare la maestria dei musicisti:  a partire dalla voce e dalla chitarra spettacolari, fino all’ implacabile  sezione ritmica.

Francesco Maraglino

 

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