Recensione: L’Envers

Di Stefano Santamaria - 14 Novembre 2016 - 9:30
L’Envers
Band: Wormfood
Etichetta:
Genere: Avantgarde 
Anno: 2016
Nazione:
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68

Il polveroso sipario si alza stancamente, riempiendo l’aria di un profumo stantio, lasciato forse distrattamente aperto in un camerino. La fragranza ci ricorda un passato pieno di splendore, venuto meno con il tempo ma non per questo scevro di raffinatezza. Decadenza che trasuda da una vita lasciva, da un merletto ingiallito, e da un velluto consumato.

Su questo palco scricchiolante, ecco incominciare la rappresentazione dei Francesi Wormfood, progetto attivo dal 2001, e con alle spalle quattro full-lenght.
La storia ci viene sussurrata, delicatamente ci sfiora, nascondendo un’angoscia e una perversione profonde. Corpi e poi brividi, freddo che come brezza trasporta le note, dispiegandosi in una danza. Le movenze, così raffinate, ci raccontano di un dolore intenso, di un’empia passione che tutto travolge, consumando.
“L’Envers” è un gotico gesto che si muove in concetti avanguardistici e che sfiora, nelle sue iraconde espressioni, il black metal. Solo accenni, perché le atmosfere regnano sovrane, decantate da un comparto vocale intricato, ed incredibilmente espressivo. Le armonie sono arricchite via via da El Worm, voce narrante di una vera e propria rappresentazione teatrale in chiave musicale. Tutto viene reso con semplicità, ma non per questo meno ricco di particolarità ortografiche, licenze poetiche che si intrecciano con maestria alle melodie. Troviamo esaltante come il gothic non venga per nulla snaturato, nonostante le tante sperimentazioni e sfumature intagliate.
Il brano ”Ordre de mobilisation générale” è mestizia che si incarna in sguardo rivolto al vuoto, preghiera recitata in un buio angolo, scandita dal respiro di un pubblico silente. Rivediamo qua e là qualche lucente e sparuto richiamo all’heavy, un taglio horror che ci porta alla mente King Diamond. Il più importante parallelismo che però ci balena per la testa è quello con i francesi Notre Dame, per la voglia di sperimentare e di poggiare, mattone su mattone, emozioni cupe, ma sempre diverse.
I pezzi sono sofisticati e ben distinguibili l’uno dall’altro, capaci di essere evanescenti, spettrali, ed allo stesso tempo presenti per consistenza di suoni e resa. In tal senso la produzione è a dir poco perfetta, capace di esaltare il baluginare dei sentimenti trasmessi.
Non mancano poi istrionici passaggi, che potremmo definire più progressive e colorati, e che convogliamo in un unico esempio: “Gone on the Hoist (G.O.T.H.)”. Anche “Collectionneur de poupées” è una raffigurazione di una speranza che pian piano riscalda, atto di un’opera che ha più facce, e che cambia via via maschera, come nella vita ognuno di noi vive molteplici aspetti del proprio io.
Il sipario scende, la polvere, che si era stancamente mossa, ricade sull’umido legno del palco.

Disco che forse non verrà apprezzato da tutti per l’eccessiva “posa” degli artisti, sentore di un avantgarde che spinge ad un manierismo esasperato.

Stefano “Thiess” Santamaria

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