Recensione: Levin, Minnemann, Rudess

Di Roberto Gelmi - 12 Febbraio 2014 - 0:01
Levin, Minnemann, Rudess
Band: LMR
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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83

Quando nel settembre 2010 Mike Portnoy lasciò in modo travagliato i Dream Theater, il sottoscritto pensò subito che il suo perfetto successore sarebbe stato Mike Mangini. A farmi ricredere e cambiare pronostico fu, tuttavia, un concerto (un “Evening with”) tenuto poco tempo prima da Jordan Rudess insieme al talentuoso batterista Marco Minnemann. Pensai che, così come accaduto per i Liquid Tension Experiment, tale collaborazione fosse un naturale preludio all’ingresso del drummer (già turnista con Joe Satriani) nella band newyorkese, che così s’apprestava a cambiare in parte il proprio sound. Le cose, come ben sappiamo, non andarono come mi sarei aspettato.

Poco male, col senno di poi ci hanno guadagnato tutti. La band di Petrucci ha ritrovato parte dell’ispirazione migliore, Portnoy ha riversato le proprie energie nei suoi progetti paralleli in fieri e ancora da farsi, mentre Minnemann avrebbe di lì a poco fondato i The Aristocrats, per poi subentrare al grande Gavin Harrison nella nuova band solista di Steven Wilson.

Il nuovo fugace incontro tra il tastierista dei Dream Theater e il batterista-polistrumentista d’origini tedesche non è rimasto, inoltre, fine a se stesso. Jordan, infatti, durante le riprese del breve documentario sulle audizioni post-Portnoy, resta impressionato dalla perizia di Marco e confessa che ciò che lo colpisce di più nel suo stile esecutivo è l’incredibile gioia, che ammanta d’entusiasmo contagioso la sua prova alle pelli. I fan di Minnemann sanno che tale caratteristica non lo abbandona mai, neppure nelle collaborazioni con i Kreator o i Necrophagist. La forza del drummer sta nel rendere la tecnica questione secondaria e sfruttare al meglio la gamma dinamica dello strumento per dare personalità ai singoli brani interpretati.

I due virtuosi, dunque, non troncano del tutto i contatti e alle porte dell’autunno 2013 è pronto un album strumentale di poco più di un’ora che vede in line-up anche il venerabile Tony Levin. Due membri dei LTE e l’erede di Portnoy: non manca qualcuno all’appello? In verità il progetto vede una presenza discreta di chitarre, affidate allo stesso Minnemann: gli LMR suonano, infatti, su coordinate diverse dal dittico di fine anni Novanta, capolavoro del prog. metal. Shredding pressoché nullo e tante keys: in pratica, il paradiso dei tastieristi!
L’altra differenza principale, rispetto al supergruppo voluto da Portnoy, consiste nel metodo di registrazione e ideazione dell’album, suonato “a distanza”, senza jam-session chilometriche con i tre musicisti presenti in un unico studio. Il progetto nasce, infatti, dall’accoppiata Minnemann-Levin, con i due che scrivono e registrano ognuno per conto proprio. Di questi primi tentativi sono rimaste alcuni demo (inclusi nella special edition del platter, che contiene tracce aggiuntive, brevi interviste e alcuni video). Successivamente viene interpellato Rudess, il power-trio prende forma e la musica ne guadagna in inventiva e spessore messo in campo.
Per alcuni tale modus operandi per sovrapposizioni non è dei migliori e risulta posticcio; il debutto degli LMR, così come l’ultimo full-length targato Transatlantic, sono, però, prove lampanti di come tale metodo possa essere vincente.

Veniamo, quindi, al track-by-track senza ubbie di sorta, consapevoli che ogni composizione meriterà senza dubbio un breve commento.

L’opener “Marcopolis” (titolo riferito al nome del batterista, o alla città nel regno di Mesopotamia, conteso nell’antichità da Romani e Parti?) inizia con un piglio al fulmicotone: un dropped riff e cupi fraseggi di tastiera, su cui s’innesta un tema cartoonish di Rudess, fanno immediatamente capire che non siamo su lidi prog. rock stereotipati. Subito dopo, i tempi si dilatano e la canzone prosegue con una struttura circolare che lascia spazio alle rullate indiavolate di Minnemann, stacchi lisergici e trovate a non finire. Il brano si conclude con un assolo prolungato di continuum e Jordan raggiunge vette notevoli di virtuosismo.

La seguente “Twitch” (“Spasmo”) ci porta su lidi altrettanto poco convenzionali. Tanto groove in un brano di poco più di tre minuti di partiture insane e un Levin scatenato, ma anche riff oscuri, tra arrangiamenti space metal, echi orientaleggianti e secondi di dissonanze allucinanti (min. 2:05-2:12). A tratti mi ha ricordato il Rudess/Morgenstein Project. Gli ultimi sessanta secondi sono da infarto, giusto per prestar fede al titolo della canzone.

“Frumious Banderfunk” è un omaggio al sound dei Frumious Bandersnatch, gruppo statunitense di rock psichedelico, attivo a fine anni Sessanta. Il loro curioso monicker è tratto da un personaggio menzionato nella poesia Jabberwocky di Lewis Carroll (l’autore di Alice in Wonderland) e significa qualcosa come “mostro furioso/fumante”. Gli LMR coniano un titolo tributo sostituendo il finale ‘-snatch’ (presa) con ‘-funk’ (paura) che fa ben sperare in merito alla “spaventosa” struttura del brano in questione. Riffs sporchi e non distanti dal metal tout court (e certi Planet X), synth da saloon e da colonna sonora videoludica (alla Super Mario per intenderci); strepitoso, in conclusione (min. 2:54-3:13), il formicolio acido di tastiera proposto da Rudess.

I toni si acquietano con “The Blizzard”, una delicata ballad sognante, con un ottimo Jordan ai tasti d’avorio e un buon assolo vicino al miglior Tomas Bodin. Levin dà il giusto tocco di originalità al brano, che risulta un ottimo intermezzo prima della complessa “Mew”.

Il quinto brano in scaletta ha, infatti, una durata non indifferente e presenta aperture funky, sonorità vellutate, cambi di tempo e atmosfera imprevedibili. Per certi versi, una riuscita commistione degli Yes di Relayer, i King Crimson di “Starless and Bible Black” e una “spruzzata” di Rush. Certi arrangiamenti e scelte stilistiche ricordano, altresì, i capitoli più esaltanti della carriera solista di Rudess (“Feed the wheel” su tutti). Non il pezzo più orecchiabile del platter, ma indubbiamente una dimostrazione d’inventiva e perizia tecnica notevole.

La breve “Alfa Vulu” è un calderone d’idee e sonorità delle più variopinte. Minnemann detta poliritmi malati e Rudess è da ricovero coatto con camicia di forza! L’attacco di basso in “Descent” può riportare alla mente i grandi Attention Deficit. I toni flemmatici, che accompagnano svogliatamente l’ascoltatore, danno il senso di una discesa lungo una china lisergica, ma non c’è propriamente monotonia, con un Rudess che, sul basso continuo di Levin, escogita trovate multiformi (dai suoi soliti synth, a certi suoni vicini allo stile di Richard Barbieri, passando per alcune aperture cinematografiche). Citando l’avviso precauzionale del primo LTE, siamo di fronte a un brano che «is not for the musically faint-hearted, impatient, or critics of extreme self-indulgence» (a livello musicale non è per i pusillanimi, gl’impazienti o gl’intolleranti a un’autoindulgenza estrema).

“Scrod” prende avvio con tinte subacquee e un tema nostalgico e sospeso di Rudess; c’è il synth di sitar tanto caro ai fan dei Dream Theater di “Scenes From A Memory”, dissonanze atonali sulla falsa riga di “A rite of passage”, meandri claustrofobici e un crescendo vellicante che resta facilmente nella memoria dell’ascoltatore più attento. Nella coda Minnemann regala qualche emozione e si dimostra vero valore aggiunto del progetto.

“Orbiter” è un brano inconsueto, quasi in assenza di gravità. Levin e Rudess dialogano alla perfezione: un po’ Porcupine Tree, un po’ Marillion. “Enter the core” avanza con un incedere ugualmente lisergico e i fill di batteria sono i veri protagonisti. Rudess regala un affascinante stacco circense e buoni assoli di continuum. Forse il pezzo meno riuscito del lotto, ma comunque non una skip-track.

“Ignorant Elephant” è un altro brano con un titolo che è tutto un programma. I toni tornano sostenuti e Levin fa impennare il suo basso come animato di vita propria. Gli inserti di pianoforte non stonano, anzi, i dialoghi e gli intrecci che Rudess intesse con i synth più disparati sono mirabili. Sonorità metal (qualcuno, per caso, conosce gli ungheresi Mindflowers?) e cadenze alla Neal Morse. Le rullate stellari di Minnemann creano strani déjà-vu e paiono trapelare echi degli immensi Gordian Knot.

Un arpeggio semiacustico di chitarra dà avvio a “Lakeshore Lights”; subentra, poi, un Levin pulsante e il solito Rudess solista che non risparmia alcune svirgolate d’impatto. Brevi istanti alla Camel, rallentamenti inquietanti e l’ombra degli Yes sullo sfondo. Come nei precedenti brani il pezzo termina con un tocco di virtuosismo.

“Dancing Feet” è una traccia corta (come “Twitch”) con un voci distorte nell’incipit, un riffone sabbathiano e uno svolgimento in meandri di ansia liquida. Sonorità latamente spaziali (i The Flower Kings di “Flower Power” possono essere un buon metro di paragone) e un Rudess meno invadente, che lascia più spazio alla sezione ritmica.

Il platter si conclude con “Service Engine”, brano più lungo del full-lenght, con un inizio che potrebbe essere tratto da un disco dei Planet X. Palesi i richiami celebrativi ai King Crimson (l’omaggio a “In the Court of the Crimson King” al min. 5:49 è commovente). In un’atmosfera nebulosa, alcune parole centellinate, scandite da una voce distorta, danno un tocco di memorabilità alla composizione che termina con linee ruvide di basso in gran risalto. Peccato per il finale troppo brusco, che lascia l’ascoltatore basito.

Dopo un’ora immersi in tale mondo proggish e un filo alienante, si può affermare che il debutto degli LMR è grande musica strumentale, per i palati più robusti e musicisti in cerca di qualche stimolo creativo. La produzione è adeguata e il drumwork di Minnemann è valorizzato da un mixaggio che rende fede al tocco e alla pulizia del drummer, che tra poco più di un mese sarà in Italia con i The Aristocrats. Un confronto tra quest’ultima band e gli LMR non è dei più utili e intelligenti: i due gruppi nascono rispettivamente come live-band e progetto parallelo, dunque si collocano su poli opposti.

La “Trinità musicale” che abbraccia tre generazioni di virtuosi (Minnemann classe 1970, Levin ‘46, Rudess ‘56) fa centro fin da subito e pare aver trovato la giusta alchimia. In tal senso anche la (brutta) copertina minimalista dell’album ha un suo significato: su uno sfondo di rack, la struttura molecolare (un po’ Geomag?), su cui spiccano i volti dei tre musicisti, rivela come il rapporto tra loro sia paritario e non gerarchico. In realtà a Rudess spetta il compito di esplorare i lidi più astrusi e sperimentali, ma il tastierista si dimostra più che all’altezza del compito. Jordan sembra vivere un momento di grazia, dopo le varie partecipazioni (Affector, Ayreon, Lalu), gli album con i Dream Theater e il raffinato disco solista “All that is now” per pianoforte, uscito lo scorso dicembre. In gran spolvero anche Tony Levin, già membro dell’ennesima incarnazione dei King Crimson (Crimson ProjeKCt): quasi settant’anni e non sentirli!

Un simile melting pot di partiture ritmiche inusuali, cambi di tempo sconcertanti,  momenti aggressivi, spaziali e deliranti, non merita che un deciso incoraggiamento. Il futuro del buon prog. passa anche da qui.

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