Recensione: Magnisphyricon

Di Ottavio Pariante - 21 Giugno 2011 - 0:00
Magnisphyricon

Vi voglio raccontare una favola.
In un tempo non molto lontano c’era un talentuoso musicista di nome Oliver Palotai che aveva un sogno, quello di avere un band che avesse incorporato nel proprio songwriting power metal dalle forti tinte progressive, innesti di jazz e forti reminiscenze di musica classica.
Il suo forte desidero però era ostacolato dalla presenza del padre-padrone del suo vecchio gruppo, ovvero quel Blaze Bayley che offuscava il suo genio a causa delle sue ideologie artistiche prettamente ancorate nell’heavy-metal classico e che gli impediva di sperimentare e di vivere la sua professione in maniera più oltranzista.
Dopo un periodo più o meno lungo, scandito da alti e bassi ma anche da discreti successi, a causa di insostenibili divergenze tecniche, al suo seguito anche l’intera line-up decise di smettere per cercare altrove le motivazioni perse.
Quello fu il momento perfetto per Oliver Palotai (chitarrista, ma anche attuale tastierista dei Kamelot) per gettare le basi del suo nuovo progetto, rivolgendosi a una line-up composta da grandi musicisti che avrebbero lavorato come una grande squadra per molti anni a venire. I primi due membri ad aderire furono proprio i suoi ex compagni di avventura Luca Princiotta (chitarra) e Daniele Shild (Batteria) nella primavera del 2007. L’estate seguente, il bassista Jürgen Steinmetz e il cantante Tijs Vanneste, si unirono al trio e cosi la nuova creatura che prese il nome di Sons of Seasons, cominciò a muovere i primi passi.
La sfida iniziale più grande fu proprio quella di tradurre in musica il proprio credo artistico, cercando di fonderne all’interno i vari elementi, estranei a quelli prettamente metal, nel modo più consono possibile, al fine di evitare nel risultato finale disarticolazioni tra le varie componenti e quindi di conseguenza appiattimento del songwriting.
Un periodo di rodaggio durato un paio d’anni ha portato anche ad alcuni avvicendamenti interni come il cambio dietro il microfono con Henning Basse al posto di Vanneste e Pepe Pierez alla chitarra in sostituzione di Princiotta: i Sons of Seasons riescono a dare alle stampe il loro primo lavoro sulla lunga distanza ovvero Gods of Vermin

Per amor del vero il loro debutto non fece gridare al miracolo e non ottenne tutti i favori che erano stati pronosticati alla vigilia risultando anzi un po’ troppo fine a se stesso, ostico e a tratti soporifero.
Ma il lavoro e l’abnegazione pagano sempre: dopo altri due anni di duro impegno cercando di non ripetere gli stessi errori, intervenendo in maniera massiccia sul songwriting e arricchendo il tutto di nuovi elementi per dare al pubblico un lavoro che suoni in maniera diversa, arriviamo ai giorni nostri con la pubblicazione del nuovissimo “Magnisphyricon”.
Il nome è tutto un programma ma, a scanso di equivoci, con un ascolto approfondito si può dedurre che tutto è stato concepito con raziocinio, con più calma, affilando nell’attesa le armi migliori.
Dal punto di vista stilistico non è cambiato moltissimo, ma questa volta l’ascoltatore avrà tra le mani un disco curatissimo, pieno di atmosfere ipnotiche e sognanti: la perizia tecnica affonda le sue radici in qualcosa di astratto (che alla lunga risulta quasi reale) e affascinante. Questo particolare lo si denota già dalle prime note dell’ intro “Magnisphyricon: Temperance”, dove le tastiere suonate con maestria da Oliver Palotai catapultano l’ascoltatore in un’atmosfera sinistra e surreale che viene squarciata poi in seguito dalla potentissima “Bubonic Waltz”, brano su cui vorrei soffermare la mia attenzione perché rappresenta in toto quelli che sono i Sons of Seasons attuali. Si tratta di un pezzo dalle ritmiche impazzite e dal minutaggio abbastanza cospicuo, dotato di un groove e di un impatto emotivo devastante, grazie ai suoi elementi tastieristici semplicemente perfetti: magia e pazzia che cantano all’unisono con forti reminiscenze “Kamelotiane”, sbocciano in un ritornello veramente trascinante rendendolo uno dei migliori episodi del lotto.

Con “Soul Simmestry” il cambio di direzione è quasi immediato in quanto, se si esclude il refrain veramente godibile e orecchiabile, la traccia si sviluppa su territori progressive dove i Sons of Seasons danno spolvero a tutta la loro tecnica mettendo su un pezzo veramente duro da digerire anche se terribilmente affascinante.
Il terzo brano ”Sanctuary” invece è forse il pezzo più sperimentale, ma anche il più delicato, grazie all’apporto della fantastica voce degliEpica Simone Simons che duetta in maniera sublime con Henninng Basse, dando un bel valore aggiunto al pezzo e di conseguenza a tutto l’album.
Sciorinato il primo quarto del disco, possiamo dedurre che i Sons Seasons hanno fatto sul serio, integrando la loro tecnica in un contesto più curato e ricco di sfaccettature.
Un inizio interessante, anche se a primo impatto non fa gridare al miracolo, che risulta piacevole grazie a ritornelli freschi e immediati.
Peccato però che la situazione precipiti con “Casus Belli 1: Guilt’s Mirror”, dove le belle atmosfere e i deliziosi ritornelli lasciano spazio alla sperimentazione più ricercata, risultando tra i pezzi più difficili da ascoltare dell’intero disco.
Si tratta comunque di un isolato episodio di iper-tecnicismo, in quanto dopo il breve “Magnisphyricon: Adjustement”, si ritorna sulla falsa riga di “Bubonic Waltz” con il pezzo “Into the Void”: pezzo superlativo con le melodie a pieno regime, intermezzi tastieristici morbidi e sognanti, il tutto condito dalla voce di Basse, sempre precisa ed evocativa.
Anche in un disco ben confezionato come questo, ci sono alcuni episodi che non convincono appieno e popolano la coda dell’album. Trascurando la devastante e sublime “Tales of Greed” e la dolcissima e raffinata ballad finale “Yesteryears”, sono diversi i pezzi che non convincono del tutto, a opinione che il “paziente” è in netta ripresa, ma non è guarito del tutto. “A Nightbird’s Gospel“, “Lilith”, “Casus Belli 2: Necrologue to the Unborn”, sono degli ottimi pezzi presi singolarmente, ma nell’insieme non stupiscono e soprattutto non brillano di luce propria, risultando ostici e poco digeribili dopo quasi un ora di musica.

In conclusione, nonostante tutto sia stato concepito alla perfezione, manca ancora qualcosina che però alla lunga potrà far chiudere il cerchio e dare a questa favola il suo meritato lieto fine in modo che tutti (band, fan e recensori di turno) possano vivere felice e contenti.

Ottavio ”octicus” Pariante

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Tracklist:
1 – Magnisphyricon: Temperance
2 – Bubonic Waltz
3 – Soul Symmetry
4 – Sanctuary
5 – Casus Belli 1: Guilt’s Mirror
6 – Magnisphyricon: Adjustement
7 – Into the Void
8 – A Nightbird’s Gospel
9 – Tales of Greed
10 – Lilith
11 – Casus Belli 2: Necrologue to the Unborn
12 – Magnisphyricon: The Aeon
13 – 1413
14 – Yesteryears

Line up:
Oliver Palotai : Guitar, Keyboard
Henning Basse : Vocals
Daniel Schild : Drums
Jürgen Steinmetz : Bass
Pepe Pierez : Guitar