Recensione: Malvada

Non male la proposta delle brasiliane Malvada.
Arrivano su Frontiers da perfette sconosciute. Almeno a queste latitudini. Ma a differenza di altre occasioni in cui la sostanza si è rivelata di poco conto, in questo caso un po’ di spessore c’è ed è tangibile.
Al debutto assoluto dopo ed una fondazione relativamente recente (epoca pandemica) una serie di singoli in lingua madre ed un bel po’ di concerti, le Malvada propongono un hard rock contemporaneo con influenze alternative ed una certa sensibilità per il grunge dei bei tempi passati. Quello di Soundgarden e Pearl Jam. Non manca qualche spunto più personale in cui esternare la personalità carioca che il quartetto non esita a mettere in evidenza con vivo orgoglio.
La buona voce della cantante Indira Castillo è decisamente un primo biglietto da visita che avvia il debutto verso discreta riuscita. Atmosfere ruvide, si intrecciano con giri “settantiani” dall’indubitabile attrattiva, complice anche l’estro chitarristico di Bruna Tsuruda. Non una virtuosa della sei corde, ma essenziale nel piazzare riff robusti e potenti.
L’uso della lingua madre, di tanto in tanto, funziona poi con duplice effetto. Quello di rappresentare un po’ di varietà in uno scenario musicale talora appiattito. E conferire soprattutto un pizzico di inatteso fascino esotico.
“Como se fosse Hoje” per dirne una, possiede una base root fatta di chitarra acustica e qualche giro elettrico che potrebbe quasi appartenere a “Flesh n’Blood” dei Poison. L’idioma portoghese che viene sovrapposto, contribuisce invece a creare un effetto alla “Heroes del Silencio”, stile rock latino, (anche se quelli erano in realtà spagnoli) che non spiace affatto.
Non appesantito da eccessi, essenziale e molto diretto, il debutto delle quattro sudamericane non la tira troppo per le lunghe e dice tutto nell’arco di poco meno di una quarantina di minuti. Un minutaggio sufficiente per mettere in mostra una manciata di brani di discreta qualità, tra cui spiccano, indubbiamente, le opener “Down the Walls” e “Yesterday”, l’oscura “Fear” e l’intensa ballata “I’m Sorry”.
Felici esempi di un gruppo che non ha prodotto probabilmente un disco perfetto, ma può presentarsi dignitosamente al confronto in uno scenario più vasto rispetto agli esigui confini nazionali frequentati sinora.