Recensione: Megantereon

Di Pasquale Carotenuto - 19 Settembre 2013 - 17:12
Megantereon
Band: Neurosphere
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2013
Nazione:
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72

 

Buona prova per i nostrani Neurosphere e per il loro primo full-length “Megantereon”.

La band romana, attiva dal 2001, propone un genere abbastanza eterogeneo: death metal piuttosto melodico con influenze thrash e innesti di tastiere, il tutto condito con un cantato che va dal growl al pulito. L’album, composto da undici tracce, si lascia sicuramente ascoltare, grazie a delle melodie orecchiabili e dei ritornelli, bisogna ammetterlo, tutt’altro che sgradevoli. Particolarità di questa band è l’utilizzo di voci in growling su una base più che altro heavy e death, per quanto la voce pulita risulti più che adeguata ai contesti in cui viene inserita; altro tocco originale è dato dal sapiente utilizzo delle tastiere, mai invasive, ma sempre tese a creare la giusta atmosfera e a ritagliarsi, talvolta, qualche ruolo di primo piano.

Esaminando più da vicino il lavoro della band capitolina, vediamo come l’album presenti una musica difficilmente inquadrabile già dal primo brano: “Beyond The Gates Of Pluto” apre le danze con delle percussioni tribali in stile Sepultura, sulle quali va a sovrapporsi un gradevole giro di basso arricchito dalle tastiere. Il nostro Fabrizio “Simple Man” Oliva mette in mostra la sua riffica energica alla chitarra e un cantato pulito che, tuttavia, resta graffiante e grezzo; degno di nota l’alternarsi con il cantato in growl, quasi un botta e risposta con le clean vocals. Il ritornello vola su tempi blast-beats che legano alla perfezione con le chitarre tese. Davvero bello l’intermezzo di basso e chitarra che tendono a intrecciarsi fino a portare a un solo di chitarra dalle timide tinte progressive, e a un interessante e intenso solo di tastiera, seguito da un suggestivo duetto dei due strumenti. Il brano si conclude con un nuovo solo di chitarra dal gusto molto eighties. Segue “Ira”, pezzo strumentale che, onestamente, ho trovato un po’ banale e scarno.

All’improvviso, poi, arriva un pezzo thrash di quelli che ti prende a schiaffi: “Dispossession”. La mente corre immediatamente ad artisti come Megadeth e Anthrax dei tempi d’oro. Il cantato brutale di Oliva si abbatte su un giro di chitarra che travolge l’ascoltatore obbligandolo a diverse sessioni di headbanging, fino a quando esplode il refrain, supportato da un’ottima tastiera, in cui il singer dimostra di poter essere cattivo anche utilizzando un cantato pulito. Il brano, arricchito da un buon assolo di chitarra, prosegue attraverso diversi cambi di tempo. Quando parte “Under One Thousand Moons” sento scendere una forte malinconia, probabilmente perché l’intro del brano richiama nomi come Dissection e In Flames (quelli che suonavano death metal, ovviamente). Perfetta la chitarra solista che crea il riff portante; altrettanto buona la ritmica che funge da tappeto e ottimo l’inserimento degli archi a creare un’atmosfera cupa e malsana. Il growl di Oliva cade a pennello sulle strofe, ma è nel ritornello che il singer riesce a esprimere perfettamente la tristezza attraverso linee melodiche semplici, ma molto efficaci e orecchiabili. Da ascoltare e riascoltare il solo di chitarra in chiusura del brano. Il seguente “Floaters In The Void” è un brano eterogeneo che parte come pezzo thrash contaminato da abbondante elettronica, per poi mutare in cambi atmosferici che, seppur gradevoli all’udito, potrebbero minare l’attenzione dell’ascoltatore.

Passiamo ora alla title-track, “Megantereon”: di nuovo il thrash, di nuovo il sound che ricorda la band di Mustaine. Il cantato sulla strofa evidenzia qualche limite dal punto di vista della melodia e della metrica, ma il chorus è abbastanza accattivante. Il ritorno del growl, le possenti chitarre ritmiche e la massiccia batteria in mid-tempo ridonano la giusta aggressività a un brano finora non proprio entusiasmante. Oltre sessanta secondi di assolo di chitarra poi, risollevano definitivamente le sorti del pezzo. “The Bonestorm” comincia in maniera relativamente calma per poi deflagrare progressivamente; bello il ritornello, anche se po’ morbido; più che azzeccato il basso esplosivo sulle strofe. La band ha comunque altre carte da giocare; e lo fa al meglio con la splendida ballata “The Dream Recorder”. Gli strumenti si fondono fino a creare una splendida base acustica, sulla quale si stende un cantato caldo e malinconico. Il ritornello è semplice, d’impatto, con la voce che torna a essere graffiante, ma non cattiva (e la scelta risulta essere giusta).

“Neurosphere” è forse il brano più pesante di tutto il disco: la voce pulita scompare per lasciare il dominio al cantato gutturale; le chitarre ritmiche sono toste, tese, senza fronzoli; la batteria martella migliaia di colpi fino a sfociare in passaggi grind. Particolarmente apprezzabile il giro di tastiere durante il chorus. La decima traccia, “Gashes In The Veil”, tira fuori il lato swedish dei Neurosphere. Il pezzo è vario, articolato e ben composto. Le chitarre, che la fanno da padrone, esprimono quanto più possibile la bravura compositiva degli axe-man, altamente fruibile nei passaggi acustici e in quelli solisti. Arriviamo al brano che chiude le danze: “Ballo In Fa Diesis Minore”. Proprio così: stiamo parlando di una riproposizione del celebre brano di uno dei maestri della musica d’autore italiana, nonché poeta, Angelo Branduardi. La scelta del brano comporta gravi responsabilità, sia nei confronti dell’autore, che nei confronti degli esecutori. Tuttavia, la band capitolina non fallisce nell’esperimento: il brano mantiene il suo scheletro originale di stornello medievale, in cui bellissima figura fa il ritornello, eseguito con maestria a livello vocale. Originale anche la parte in growl.

I musicisti sono in gamba, la produzione è buona, l’artwork accattivante… epperò manca quel tocco a livello di sound che permetterebbe all’ensemble di fare un gran salto di qualità. Se, infatti, nei brani e nei passaggi più thrashy, il sound non proprio pulito e piuttosto grezzo può risultare efficace, nel resto dell’album, in cui le chitarre e le tastiere tendono a costruire fraseggi e passaggi abbastanza eclettici, esso meriterebbe una cura maggiore, dovrebbe essere più elegante, più pulito, più caldo; ciò permetterebbe all’ascoltatore di cogliere la varietà compositiva della band e di goderne in maniera adeguata. Per intenderci, il “Giudizio Universale” di Michelangelo sarebbe stupendo anche in bianco e nero, ma non riuscirebbe a esprimere la potenzialità dell’artista.

Detto questo, il giudizio finale è sicuramente positivo e, in attesa di nuovi componimenti, facciamo i nostri complimenti ai Neurosphere, ennesima prova dell’ottima fattura del metal nostrano.

Pasquale Carotenuto
 

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