Recensione: Mental Vortex

Di Daniele D'Adamo - 29 Ottobre 2007 - 0:00
Mental Vortex
Band: Coroner
Etichetta:
Genere:
Anno: 1991
Nazione:
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80

I Coroner, leggendaria band svizzera nata come power trio, ma sviluppatasi nel tempo come act dedito al thrash, iniziarono la propria carriera nel 1986 quando, dopo aver svolto il compito di roadie per i Celtic Frost, incisero il demo Death Cult (con Tom G. Warrior come guest vocalist). L’anno successivo diedero alle stampe R.I.P. (1987, Noise), primo full-length di una carriera relativamente breve, che terminò nel 1994. Nel 1991 l’act svizzero produsse Mental Vortex, oggetto della presente recensione. Immutata nel corso degli anni la line-up, formata da Ron Broder (alias Ron Royce), voce / basso, Tommy Vetterli (Tommy T. Byron), alla chitarra e Markus Edelmann (alias Marquis Marky), alla batteria; irrobustita all’uopo per quest’album da Kent Smith, tastiere, Janelle Sandler e Steve Grunden, backing vocals.

L’album – prodotto da Tom Morris e composto dal trio a sei mani – presenta notevoli spunti evolutivi rispetto al canonico e più ortodosso thrash della seconda metà degli anni ’80, in riferimento agli allora act europei ed americani. Frammiste allo stile inequivocabilmente thrash si trovano infatti, spesso e volentieri, tratti – anche lunghi – di partiture prog, ove il gruppo esplora sonorità e, soprattutto, un modo di comporre che, sinteticamente, si può definire come una specie di “proto-prog / thrash”.
Già dalla prima canzone, la dinamicissima Divine Step (Conspectu Mortis), nella quale i dettami classici del thrash vengono mantenuti integri, soprattutto nella trascinante parte introduttiva, compaiono subito elementi di accidentalità musicale, specificamente nella parte ritmica, mai uguale a se stessa, mai lineare, ricca di cambi di tempo. La canzone stessa ha una struttura varia, complessa, non riconducibile alla classica ossatura di una comune canzone rock; senza dimenticare il riffing, in continuo stato di mutabilità, ove le armoniche sono perennemente diverse, numerose ed eterogenee. Stupendo il break centrale, melodico e d’atmosfera, che poi viene spazzato via da un ritorno violento alla sonorità e potenza del thrash-sound, sul quale si innesta un assolo di chitarra dalla chiara identità e autonomia armonica. Il tutto condito dal cantato di Ron Royce, sapientemente isterico e controllato, mai sopra le righe a distogliere l’attenzione dallo sforzo tecnico fatto dal trio nel comporre ed eseguire la canzone. La descrizione lunga ed articolata di Divine Step è, in sostanza, la descrizione dell’intero album, ove le canzoni – peraltro di lunghezza sopra la media – si susseguono con una encomiabile omogeneità, dovuta allo sforzo fatto dal gruppo, in sede di songwriting, nel mantenere costante e riconoscibile lo stile unico che ha maturato nel corso del quinquennio precedente. E infatti Son Of Lilith, dal ritmo più lento e cadenzato, non esce dai binari sui quali il trio svizzero ha impostato tutto il lavoro. Così come in Semtex Revolution, dove riemergono le complessità ritmiche ed armoniche che si erano subito percepite nella canzone di apertura, frammiste a toni cupi e dal groove black; il break centrale, ispirato e tecnico, fa da cornice ad un altro assolo di chitarra di Tommy T. Byron, melodico, pulito e classico. Con Sirens, quarta canzone dell’album, sale appena di tono il ritmo, producendosi in un mid-tempo sostenuto e potente, alternato però a parti più veloci, in ottemperanza alla regola che il gruppo sembra essersi dato in merito alla non-linearità della sezione ritmica e del groove delle canzoni. In Metamorphosis si respira sì puro thrash nell’introduzione, ma subito la canzone prende la via della continua variazione sia ritmica che armonica, sino ad arrivare al “solito” break centrale di estrazione prog, ove soluzioni nuove vengono sistematicamente sperimentate ed eseguite con perizia tecnica. Con Pale Sister rispunta il groove thrash, con una cavalcata meno accidentata rispetto alle canzoni precedenti, quindi più lineare e immediata, compreso l’assolo di chitarra, soprattutto nella costruzione ritmica del riffing di sostegno all’assolo stesso. Finalmente, con About Life, si ritrova il piglio aggressivo e claustrofobico che i Coroner avevano sin’ora posto in evidenza come loro caratteristica peculiare. Ma è solo un singolo episodio, peraltro non esulante, per la già citata omogeneità compositiva, dal generale contesto del platter.
A chiudere, una cover dei Beatles (!), I Want You (She’s So Heavy), sostanzialmente inutile a fornire altri elementi di novità all’album.

Forse i tempi non erano ancora maturi per una “tecnicizzazione” del thrash, intesa sia come concezione a monte in sede di songwriting, sia come concezione a valle in sede di esecuzione.
L’album, infatti, lasciandosi spesso e volentieri andare a momenti di difficile assimilazione e di difficile interpretazione, perde quell’immediatezza tipica del genere natio, che ne è forse la caratteristica peculiare.
E questa “filosofia costruttiva”, encomiabile per lo sforzo prodotto a livello concettuale, ha portato ad un inevitabile de-potenziamento del suono prodotto dal combo svizzero, conducendo lo stesso verso più rarefatti lidi dediti alla ricercatezza musicale piuttosto che alla potenza pura e all’aggressività sonora.
Nota invece del tutto positiva, l’assoluta originalità dell’album, che risulta, ancora oggi, immediatamente individuabile in mezzo all’inestricabile selva della produzione metal degli ultimi 20 anni.

Daniele D’Adamo

Tracklist:
1 Divine Step (Conspectu Mortis)
2 Son Of Lilith
3 Semtex Revolution
4 Sirens
5 Metamorphosis
6 Pale Sister
7 About Life
8 I Want You (She’s So Heavy)

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