Recensione: Mirror of Creation 2 – Genesis II

Di Alessandro Marcellan - 28 Febbraio 2007 - 0:00
Mirror of Creation 2 – Genesis II
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Anno: 2006
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73

La Lion Music torna a proporci un prodotto di qualità per la scena prog-metal di fine 2006, ovvero il terzo lavoro in studio dei tedeschi Tomorrow’s Eve, alle prese con la 2a parte di un concept-album incentrato su un esperimento scientifico diretto alla creazione del DNA “perfetto” per far fronte alla sopraggiunta infertilità del genere umano.

Le novità rispetto al Capitolo 1 “Mirror of Creation”

La band si trova rivoluzionata nella line-up, con una nuova sezione ritmica (Tom Diener and Chris Doerr, rispettivamente batteria e basso) e un nuovo cantante, Martin LeMar (già con Vivien Lalu in “Oniric Metal”), il quale risulta determinante nel dare un’impronta più personale ai Tomorrow’s Eve: oltre ad essere (sorprendentemente, direi) l’autore principale delle liriche per questa “Part II”, si rivela tecnicamente una spanna sopra al suo predecessore, ma soprattutto più prolifico in sede interpretativa, salpando dai lidi puliti “di scuola Tate” per approdare, quando occorre, a buone dosi di giusta aggressività. Lo stesso sound dei tedeschi appare più “fresco”, dotato di maggiore potenza, meno incline a lunghe parti strumentali di “cliché” e con linee melodiche mai troppo catchy che strizzano l’occhio alla scena neo-progressiva (e ai maestri Vanden Plas), per quanto il risultato complessivo non paia ancora del tutto esente da imperfezioni che riassumeremo più avanti. Procediamo ora a descrivere il contenuto delle singole tracce di questo nuovo episodio, seguendo l’originale scansione per paragrafi suggerita dall’artwork, con alcuni accorpamenti.

Capitolo 2: “Mirror of Creation 2 – Genesis II”

§ 1-2-3: Un risveglio senza memoria. L’inizio del concept vede un uomo che riprende coscienza in un vicolo buio, senza alcun ricordo del suo passato, con voci lontane e indistinte che sfumano in inquietanti suoni elettronici [“2.1 – Man Without a Name”]. Dopo questa intro mindcrimiana, si prosegue con un riffing variabile in tempo moderato -che ricorda per un momento la celebre “Pull Me Under”- ad aprire per l’ingresso in scena di Martin LeMar, il quale delinea con accortezza le buone melodie di un brano la cui trama, sorretta da un basso pulsante e una turbata base di synth, risulta esteriormente lineare: non mancano in realtà variazioni ritmiche (bellissimi in particolare gli inserti di pianoforte di Oliver Schwickert), tuttavia esse si muovono entro lo steccato della “forma canzone” e le stesse parti strumentali, non ostentando particolari virtuosismi dei singoli, si producono in un buon lavoro d’assieme funzionale al tutto [“2.2 – Amnesia”]. Un possente attacco di doppia cassa ci fa quindi rimbalzare su sonorità power-thrash (con qualcosa di Evergrey e Manticora), per 3 minuti in cui un LeMar novello Russel Allen grida (“This is pain!”) il frustrante senso di alienazione del protagonista, che viene condotto in ospedale (l’irruenza del pezzo è interrotta solo da un inciso di pianoforte: un elemento intrigante che farà capolino in più punti del disco, facendogli guadagnare punti in personalità) [“2.3 – Pain”].

§ 4: Eve Brandon, psicoterapia e passione [“2.4 – The Eve Suite”]. Una suite in 4 parti ci presenta la co-protagonista, la dott.ssa Eve Brandon, psicoterapeuta incaricata di far recuperare la memoria al paziente. L‘inizio rallentato, che ha le sue influenze nei Pain of Salvation più melodici, va in parallelo con la dolcezza delle cure della dottoressa, anche se la chitarra distorta sottolinea a tratti un protagonista non ancora totalmente a suo agio con la nuova amica [“2.4.1 – A Gentle Light”]: ma ben presto l’atmosfera assume i toni pacati dell’innamoramento, con linee melodiche che peraltro ricordano una famosa ballad del Dickinson solista [“2.4.2 – Shelter and Hope”]. Questo momento tenue viene troncato da un break strumentale chitarra-tastiera (ben assecondato dalla sezione ritmica) che segna nervosamente l’ineffabile scandire dei giorni e delle settimane senza miglioramenti di sorta [“2.4.3 – Days Turn Into Weeks”], quasi a preannunciare l’improvviso temporale in arrivo, con cupi accordi distorti nuovamente in primo piano che infine sfumano in un arioso, liberatorio, coro finale (altra caratteristica ricorrente su cui la band potrà lavorare per tipizzare il proprio sound): qui il protagonista cerca di dissuadere Eve dalla psicoterapia, con lo scopo di mantenere intatti questi momenti di gioia effimera assieme a lei [“2.4.4 – Eve“].

§ 5-6-7-8-9: I ricordi che gradualmente riaffiorano. La terapia prosegue, ed il nostro paziente viene messo sotto ipnosi da Eve, che lo conduce in un luogo della mente qui paragonato ad un bazar mediorientale. Le note di un sitar e lontani vocalizzi femminili portano ad una strofa in cui la chitarra elettrica si mescola con toni sintetici sull’esempio dei Fates Warning di “A pleasant shade of gray”. Alla fine del girovagare nei meandri della psiche, su ritmi più elevati e dopo un veloce stacco strumentale, vengono ripescati alcuni frammenti del passato, fra cui un ragazzo (“The market boy”) che sembra invocare aiuto: ma il protagonista non riesce a ricordare quali legami potesse avere con lui [“2.5 – The Market of Umbra”]. Un riff alla “Visione Divine” introduce la successiva semi-ballad, bel duetto fra LeMar e Jenny Clos (cantante della rock-band tedesca Cheeno) nella parte di Eve, la quale convince il suo paziente, spinto da un amore corrisposto, a proseguire le terapie; nella 2a parte del brano, dopo una vivace sezione strumentale di chitarra, pianoforte e basso stoppato, compare come ospite anche il citato Vivien Lalu in un buon assolo di tastiera [“2.6 – Not from this World”]. Man mano che spuntano nuovi elementi dal passato, il protagonista vede tuttavia scemare la volontà di andare oltre: nel lento interludio voce-pianoforte riaffiora il ricordo della “prigione che lui chiamava casa” [“2.7 – Eye for an Eye”], ossia il luogo in cui è stato creato e in cui ha consumato la sua vendetta verso gli scienziati che hanno eliminato una creatura artificiale (il “Market Boy” di cui sopra) perché non possedeva un DNA idoneo: fra chitarre pesanti e la voce più “cattiva” di LeMar, la visione dei delitti da lui compiuti lo fa cadere in un incubo e così, disgustato da sé stesso (“I am not that man!”) e da un destino che non può essere cambiato [“2.8 – Irreversibile”], prende corpo, in un pezzo accostabile al power massiccio e tecnico dei Rage più recenti, l’idea di togliersi la vita [“2.9 – Distant Murmurs”].

§ 10-11: La morte di Eve e l’interrogatorio. Il tentativo suicida viene impedito dall’intervento in extremis di Eve, ma nella colluttazione accidentalmente parte un colpo di pistola che uccide la dottoressa. Il “Liar!” gridato in screaming è rivolto alla donna che, pur sapendo, non aveva rivelato nulla, e si insinua in strofe ‘Rychiane ben amalgamate a ritmi che poi seguono la falsariga heavy del precedente, anche se ora con maggiore spazio per lo sfogo degli strumenti; il finale del pezzo vede un nuovo coro rallentato, con la ragazza che perdona in un ultimo abbraccio il suo amato [“2.10 – Rebirth”]. Dopo l’omicidio, il protagonista viene rinchiuso in cella e interrogato: il brano, uno dei più interessanti e riusciti del disco, si presenta molto teatrale con ancora frequenti sottolineature pianistiche e un azzeccato refrain da musical in cui LeMar, nel corso del 3°grado, mette insieme gli ultimi tasselli del puzzle: gli esperimenti servono a salvare il mondo dalla sterilità, e gli scienziati intendono ripartire proprio da lui, un esperimento di laboratorio dal nome “Alpha-4-1-XIII” [“2.11 – Human Device”].

§ 12: Finale: fra speranze e dubbi [“2.12 – The Trials of Man”]. La suite finale (di 11 min. “effettivi”) si apre con un calmo pianoforte, poi improvvisi, violenti riffs, a precedere un misurato ritmo-base pilotato da un bel giro armonico di chitarra. L’atmosfera generale è speranzosa, in particolare nel refrain corale in cui “Alpha-4” si convince della necessità di questi esperimenti per dare un futuro agli eredi di questa generazione: una breve cantilena di bimbo -che si scoprirà nel booklet essere il figlio del chitarrista Rainer Grund– dà il via ad una fase in cui tutti gli strumentisti hanno un loro fugace momento virtuosistico (quasi una sorta di presentazione “live”), quindi passaggi heavy si alternano a momenti più riflessivi con atmosfere dilatate sullo stile dei Porcupine Tree. Il coro conclusivo riprende l’ottimismo precedente, ma gli accordi piazzati in chiusura del pezzo, col supporto di un malinconico pianoforte, danno adito a nuovi dubbi, subito rafforzati da 5 minuti di silenzio e dalla citazione sul libretto di un fantomatico paragrafo “2.13” seguito da un punto interrogativo, per un finale aperto che potrebbe anche non escludere un’ipotetica “Part III”.

Così si chiude un altro buon concept-album dell’anno appena trascorso, con i pregi già sottolineati in apertura e alcuni “punti deboli” ravvisabili in qualche prolissità del full-lenght, nella forse eccessiva linearità di alcuni brani, e nella mancanza di acuti assoluti: ma il complesso è di valore e conferma la bontà della strada intrapresa, con il nuovo singer, in particolare, che sembra poter contribuire al salto di qualità definitivo della band. Per ora quindi ci accontentiamo, ma, fidatevi, è un bell’accontentarsi.

Alessandro “poeta73” Marcellan

Tracklist:
2.1 – Man Without A Name (0:46)
2.2 – Amnesia (6:33)
2.3 – Pain (3:25)
2.4 – The Eve Suite (9:00)
2.4.1 – A Gentle Light
2.4.2 – Shelter And Hope
2.4.3 – Days Turn Into Weeks
2.4.4 – Eve
2.5 – The Market Of Umbra (4:48)
2.6 – Not From This World (4:14)
2.7 – Eye For An Eye (0:59)
2.8 – Irreversible (4:56)
2.9 – Distant Murmurs (5:31)
2.10 – Rebirth (5:44)
2.11 – Human Device (5:45)
2.12 – The Trials Of Man (17:00)

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