Recensione: Neptune Blue

Di Marco Tripodi - 27 Gennaio 2022 - 8:00
Neptune Blue
Band: Lana Lane
Etichetta: Frontiers Music
Genere: Hard Rock 
Anno: 2022
Nazione:
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70

Una decade esatta dopo “Red Planet Boulevard” la californiana Lana Lane torna sul mercato discografico con il suo undicesimo studio album, “Neptune Blue“. In verità la discografia di Lana è articolatissima poiché, in aggiunta ad una pletora sterminata di Ep, live, raccolte, cover album, dvd ed edizioni limitate per il mercato giapponese, vanno annoverate anche le sue partecipazioni ai lavori del marito Erik Norlander (come solista), della sua band (Rocket Scientists), del loro project comune progressive metal (Rosewell Six), senza contare le ospitate sugli album degli Ayeron di Lucassen e di svariati altri nomi del panorama hard n’ heavy. A cavallo tra gli anni ’90 e i primi 2000 Miss Lane è stata una vera istituzione dell’hard rock tradizionalista di stampo Deep Purple e Rainbow arricchito dagli inserti prog portati da Norlander (fedele discepolo di Keith Emerson) e da una innata e genuina eleganza aristocratica del songwriting. Avendola seguita sin dagli esordi, mi sbilancio nel dire che fino a “Project Shangri-La” (2002) Lana non ha praticamente sbagliato un colpo, inanellando un filotto di album impressionanti per qualità e peso specifico, alcuni dei quali davvero imperdibili (“Garden Of The Moon“, “Queen Of The Ocean“, “Secrets Of Astrology“).

A partire da “Lady Macbeth” (2005), la proposta si è un po’ livellata, tendendo a ripetersi in una medesima formula compositiva con qualche picco ma anche qualche manierismo di troppo. Stiamo sempre e comunque parlando di lavori gradevoli e ampiamente oltre la sufficienza, ma complessivamente meno spumeggianti dei precedenti. E del resto la bulimia di pubblicazioni dei coniugi Lane/Norlander non poteva che portare ad un calo fisiologico. C’era dunque una discreta attesa per questa rentrée, per testare lo stato di forma di questa eccellente artista. Sin dall’artwork bucolico e surrealista (del solito Jacek Yerka) il “concept” Lana Lane si dispiega secondo le consuete coordinate; fatto partire il lettore, i dieci anni di iato si dissolvono come neve al sole e di colpo pare di essersi congedati appena il giorno prima da Lana. Ironicamente la prima traccia in scaletta (scelta anche come primo singolo con relativo videoclip) si intitola “Remember Me“. Lana pare affacciarsi alla finestra di quella casetta col tetto di paglia, interrogandosi su quanto il pubblico abbia sofferto la sua decennale assenza. L’accoppiata inziale (che si completa con “Under The Big Sky“, secondo singolo e videoclip) costituisce il biglietto da visita dell’album, affondando nello stile più classico di Lana.

Really Actually” inizia a variare lo spartito, una gran bella song d’atmosfera con un interessante uso “percussivo” degli strumenti ad arco in fase di chorus, impronta che dona un certo contraltare cupo al mood altrimenti sereno e luminoso delle strofe. In “Come Lift Me Up” emerge l’amore per i Beatles di Lana ed Erik, rivisto e bilanciato equamente tra rock e melodia. “Bring It On Home” riprende più robustamente le fila dell’hard rock affidandosi ad un riff ancheggiante e sinuoso dai tratti vagamente funky, stemperato poi dalla voce calda ed ammaliante di Lana Lane. “Don’t Disturb The Occupants” si misura con l’alternanza di rock e pop, andando in cerca di vibrazioni più light, sofisticate e morbide di stampo anglosassone. A rimarcare un ideale saliscendi la successiva “Lady Mondegreen (She’s So Misunderstood)” torna su lidi “roots”, solcando con grande padronanza le rotte “porpora” del più classico rock settantiano cesellato dalle keyobards di Norlander a dettare le coordinate, e si sogna ad occhi aperti.

Miss California” si candida tra gli highlight dell’album ed è una lunga lista di geolocazioni care a Lana, sulla scorta di tante altre tribute rock song similari nelle quali l’artista rende merito ai luoghi visitati e, contestualmente, celebra nostalgicamente le proprie origini. “Someone Like You” è un bluesettone che evidentemente non poteva mancare in una scaletta così tradizionalista. “Far From Home” aumenta i bpm e rimette in fila tutti gli stilemi del sound di casa Lane, riff sostenuto, grande apertura melodica nel chorus e pennellate di Norlander ad impreziosire. Chiude la track-list “Neptune Blue“, il pezzo dal minutaggio più lungo, una mini suite che occupa oltre 8 minuti ma che per la verità non lascia granché il segno, pur trattandosi della canzone che dà addirittura il nome all’album. Peccato. Complessivamente Lana Lane torna con un lavoro ben fatto ed interessante, diradando anche quella cupezza introspettiva che aveva un po’ caratterizzato le sue ultime prove discografiche. Siamo a metà strada tra le perle della prima metà di carriera e le produzioni meno esplosive venute dopo. Qua e là c’è forse qualche momento di calo o qualche lungaggine che si poteva sfrondare e rendere maggiormente incisiva ma è comunque un piacere ritrovare Lana, poiché la sua voce preziosa e avvolgente non ha perso nulla in fascino e magnetismo, ed il sostegno delle architetture ordite da Norlander rimane un punto saldo del marchio Lana Lane. Da mettere a verbale anche l’apporto sostanziale della band in “background” composta da Mark McCrite e Don Schiff (già sodali di Norlander nei Rocket Scientists), Jeff Kollman (Asia, Glenn Hughes), Greg Ellis (batterista nei dischi di Norlander) e l’ospitata di John Payne (Asia).

Marco Tripodi

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