Recensione: Nifelvind

Di - 24 Febbraio 2010 - 0:00
Nifelvind
Band: Finntroll
Etichetta:
Genere:
Anno: 2010
Nazione:
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85

Spesso gli antichi detti popolari hanno in se la Verità. Poche parole spesso archiviate come semplici frasi fratte possono in realtà farsi portavoce di pezzi di vita reale: spesso fanno parte della memoria storica di una nazione, di un popolo e fanno parte di diritto della storia e della tradizione.

L’ attesa del piacere è essa stessa un piacere.

Queste parole trovano l’ideale sublimazione nel momento in cui il piacere, tanto decantato ed atteso, esplode in una miriade di emozioni, sensazioni, energie che ti travolgono con l’impeto di una tempesta di neve. Nifelvind ricalca le orme dell’illustre predecessore Ur Jordens Djup sottolineando l’equilibrio magico tra ritmiche black (anche se siamo decisamente lontani dalle atmosfere degli esordi) e un humppa sempre più marcato ed ostentato, un orgoglioso richiamo alle origini e alle tradizioni che i Finntroll non hanno mai celato. Album sicuramente versatile e pieno di cambi di ritmo e di ambientazione farcito di un folk spumeggiante, la nuova proposta richiama l’immaginazione a festanti ed animalesche orge alla luce di un vivo e scoppientante braciere intervallate da canti selvaggi e cori scanditi a squarciagola come nelle canzone “Solsagan“, a colori accesi e brillanti nel sangue sulla neve versato durante la  battaglia, ai martellanti e ripetitivi ticchettii delle gocce d’acqua che cadono durante il disgelo. I Finntroll continuano a farsi portavoce della parte più intima e segreta della forza della natura traducendo in musica il linguaggio sotterraneo degli spiriti dei boschi. Il mormorare delle acque, il fruscio dei raggi di sole tra le fronde, il richiamo lontano di un lupo affamato trovano eco nella musicalità del gruppo che dagli albori della propria arte, e attraverso tutti i cambiamenti in seno alla band,  ha saputo farsi portavoce della guerra senza frontiere che gli spiriti della natura hanno messo in atto contro il genere umano e il suo seguito di odio, guerra a disprezzo verso una terra che li ha accolti da madre e che di contro viene ricambiata con menefreghismo, avidità e, nel migliore dei casi, con distratto disinteresse. La “Bloodmarsch” d’apertura ricorda esattamente questo: una entrata in guerra, una minacciosa dichiarazione d’intenti  contro il nemico che, anche se superiore in numero, nulla potrà contro la forza ancestrale del mondo naturale.
Come il carattere sfaccettato e duale dei Troll, anche il disco sembra avere numerose entità distinte ad animarlo. Undici canzoni legate assieme dalla definitiva maturazione della band finlandese, ma divise nei significati che non ricalcano minimamente un concept album. Undici  anime che vivono in un solo corpo ai piedi di scoscesi pendii in attesa nella tenebra, Nifelvind è in grado di mutare lo stato d’animo dell’ascoltatore in una empatica scarica di adrenalina che si intervalla a momenti di tetra paura mediata dalla voce abissale di Vreth. Il virtuoso cantante interpreta con assoluta personalità le liriche composte dall’onnipresente Jan “Katla” Jämsen, dando la sua personale interpretazione carica del solito pathos frammisto alla grintosa attitudine guerrafondaia che lo contraddistingue nell’esecuzione dei brani.

Il banjo trova spazio nel ritmo forsennato delle percussioni, strumenti tradizionali finlandesi come il kantele si fondono con il mandolino e le strane chitarre in legno provenienti dalla Bulgaria utilizzate per rendere ancora più folkeggiante un ritmo armonioso in certi attimi, ubriaco e scanzonato, più spigoloso ed aspro in altri.
È in questo punto preciso che la strada si biforca.
Preso dall’ansia per l’imminente uscita del disco e quindi della relativa recensione, una sera mi addormentai con il lettore acceso e il disco in loop. Non posso essere troppo sicuro perché in questo caso non parlo più di qualcosa di tangibile, reale, materiale. In questo caso, forse un po’ atipico, posso parlare dell’etereo, del non materiale, insomma: del sogno. Il viaggio è iniziato da un bosco verde in cui le cime degli alberi sono nascoste dal bianco della neve e dal grigio della nebbia. Man mano che mi addentro nella fitta vegetazione, lontani canti di guerra intervallanti da antiche nenie rituali accompagnate da tamburelli di pelle si fanno sempre più vicine e più chiare nella mente. I canti tetri e minacciosi dei figli di Ukko relegati nelle viscere della terra  si fanno sempre più minacciosi ed inquietanti, il viaggio verso il regno delle ombre “Mot Skuggornas Värld” ha inizio. Immerso nel silenzio assordante della natura mi sento vinto, sopraffatto e impotente. I lamenti provenienti dalle radici dei monti percuotono come in un fremito le membra assiderate. I troll in agguato seguono ogni mio movimento, immersi nel buio degli anfratti,  aspettano il momento propizio per attaccare. “Under Bergets Rot“, la mia personale discesa quasi sciamanica nel cuore del mondo sotterraneo. Un viaggio dove lo spazio è assolutamente relativo, “Tiden Utan Tid” dove il tempo si ferma e si assoggetta al naturale evolversi delle stagioni, ai movimenti della terra. Mi rendo conto di essere in un sogno mediato e condizionato da sette note sparate nel mio mondo alla velocità della luce, ma il sogno è talmente vivido, reale, coinvolgente che di certo non ho voglia (ne possibilità) di tirarmi indietro.

Il sentiero nel buio prosegue: ne un fuoco per riscaldarmi, ne una luce per darmi coraggio incrociano il cammino verso l’ignoto. Il gelido cuore della montagna, protettore da secoli del segreto della vita “Den Frusna Munnen“, mi da il benvenuto nella sala del trono del despota incontrastato del regno sotterraneo: Rivfader mi da il suo personale benvenuto nel mondo degli antichi “Fornfamnad“, nel luogo più lontano dalla “civiltà” dal mio mondo reale che, a dispetto di tutto, inizio a non rimpiangere. “I Trädens Sång“, dove nulla arriva ne il rumore del vento, ne il dolce canto degli alberi.
Le leggende si fanno sogno, il sogno diviene leggenda.
Sbalzato con un soffio gelido del re delle montagne mi ritrovo in uno stretto corridoio di pietra ascendente che ripido insegue il profilo di una grossa  radice, inequivocabile segnale della vicinanza della superficie. Ad attendermi l’aurora boreale, “Ett Norrskensdåd“, le luci incantate del nord mi accolgono in un tripudio di colori che esplodono violentemente dal nero del mio passaggio. Ad attendermi, seduto in cima ad un masso, il laulajat mi aspetta in un sommesso silenzio d’attesa. Parlo, ma la voce che esce mi risulta lontana, strana, quasi impersonale. L’unica parola che esce dalle mie labbra oramai al limite dell’ipotermia è: Nifelvind. Il vento del sottosuolo mi ha condotto nei meandri del mondo fatato dei popoli della mitologia, delle credenze popolari, quelle stesse credenze che hanno orgogliosamente resistito alle imposizioni e alla logica dell’invasore monoteista. Perché le vecchie credenze, così come i detti popolari, trovano nuova vita nei cuori e nelle fantasie dell’uomo del terzo millennio. Svegliato di soprassalto, tolgo le cuffie e mi trovo a ripensare al viaggio intrapreso con le note di questo album dei Finntroll. Anch’io ho scritto il mio personale runot grazie a questo lavoro di qualità davvero superiore, anche se ne sono stato totalmente inconsapevole. Mi trascino lentamente verso lo studio per riporre il fido lettore indugiando più del dovuto con lo sguardo fuori dalla finestra: nevica, e dalle mie parti non è un avvenimento molto frequente.

Daniele Peluso

Ritorna a sedere sul trono irto di corna il sestetto svedese che nel 1999 rivoluzionò il concetto di folk metal, portandolo ad altezze siderali. “Più si sale in alto” – recita un famoso detto – “e più rovinosa è la caduta”, ma per ora i Finntroll sembrano non aver intenzione di inciampare nel loro percorso costellato di grandi e ripetuti successi.
Il passaggio dal tronfio Wilska al più aggressivo Vreth ha iniettato una dose di rinnovato vigore al carrozzone degli orrori dei troll, che da Ur Jordens Djup in poi ha visibilmente virato verso quel folk meno festaiolo e più feroce che strizza in ben più di un’occasione l’occhio ai due capisaldi della band, Midnattens Widunder e Jaktens Tid.
Nifelvind, dal canto suo, è un album che rivela tutta la sua stravagante potenza dopo appena una manciata di ascolti: si tratta di un poderoso incrocio tra l’ingenuità di Nattfödd e la crudele spietatezza di Ur Jordens Djup, una mistura sopraffina che andava provata, e che dimostra con fulgore quanto può essere efficace… ed elitaria.
L’intro rivela immediatamente la caratura dell’album e l’immensità – è ormai il caso di dirlo – degli arrangiamenti orchestrali sapientemente modellati da Henri “Trollhorn” Sorvali. Siamo ormai a livelli degni di un kolossal Hollywoodiano, e “Blodmarsch” introduce l’impressionante sequenza di 11 tracce dirette, tumultuose, dall’incalzare prettamente cinematografico. Il sapore dell’opera ha del piratesco, probabilmente grazie ad alcuni giri di banjo al fulmicotone o ai ritmi tribal-caraibici di “Den Frusna Munnen“. Nifelvind non racconta una storia come Visor om Slutet, piuttosto caccia gli ascoltatori in un baraccone orrendo e visionario fatto di vascelli fantasma e di gorgheggi ai limiti del ridicolo che vedono ancora una volta impegnata tutta la band, con risultati decisamente tutti da ascoltare.

La notevole abilità musicale e compositiva acquisita negli oltre 10 anni di carriera dei nostri troll impedisce a quest’album di passare per la “ragazzata” di turno, in stile Trollfest o Nekrogoblicon per intenderci, e l’articolata struttura di ogni singola canzone palesa immediatamente il fatto che Nifelvind sia frutto di lunghi ragionamenti e sperimentazioni; il fatto poi che in realtà la cosa sia tutt’altro che vera (è stato composto in relativamente poco tempo) fa persino venire i nervi, a pensare quanto talento risieda in questi ragazzacci di Helsinki che sembra non facciano altro che divertirsi durante la stesura di pezzi che sono fin da subito in grado di essere considerati esempi stellari di folk metal d’alta classe, come la prorompente “Solsagan” e l’esagerata, apocalittica “Mot Skuggornas Värld“, un ceffone in pieno volto all’epica schizzo-drammaticità in stile Dimmu Borgir o Children of Bodom. L’immaginazione corre sul filo delle tumultuose corse elfiche di “Under Bergets Rot” e non tralascia nemmeno momenti più riflessivi come le quasi Ulveriane “Tidan Utan Tid” e “Galgasång“, a tratti un filo stonata, ma che ben si addice alla goffaggine di un troll che tenta di raccontare una storia, invece di roteare una mazza sopra la testa.
Pregevole l’artwork quasi liberty del solito Skrymer, che ben si aggancia al tema di “vile eleganza” prescelto per il set di foto promozionali.
Insomma, arrangiamenti di prim’ordine, una raffica di canzoni che trasudano talmente tanta immaginatività e personalità da annichilire il concetto di “riempitivo”, atmosfere vivaci, mostruose e in perenne movimento: non c’è da rimanere delusi da questo nuovo capitolo targato Finntroll, ennesimo gioiello di una corona degna solamente dell’unico Troll Re e Dominatore del folk metal moderno.

Daniele Balestrieri

Le recensioni sono state scritte in maniera completamente indipendente l’una dall’altra e senza aiuto di sostanze stupefacenti; per questo motivo i giudizi espressi possono non essere in totale armonia. Il voto finale è la media matematica dei voti proposti da entrambi i redattori.

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TRACKLIST:

1 Blodmarsch (intro)
2 Solsagan
3 Den Frusna Munnen
4 Ett Norrskensdåd
5 I Trädens Sång
6 Tiden Utan Tid
7 Galgasång
8 Mot Skuggornas Värld
9 Under Bergets Rot
10 Fornfamnad
11 Dråp

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