Recensione: No More Color

Gli svizzeri Coroner, con il loro terzo album “No More Color”, hanno fissato un punto fermo nella storia del thrash metal. È il disco che li proietta di diritto nell’alveo del technical thrash, accanto a band come Toxik, Flotsam and Jetsam, Voivod, Realm, Annihilator, Blind Illusion, Watchtower e Forced Entry: nomi spesso relegati a una dimensione di nicchia, ma che hanno tracciato le coordinate di una corrente destinata a influenzare anche l’approccio progressivo al metal.
Dopo l’irruenza di “Punishment for Decadence”, la band svizzera imbocca qui una strada nuova e sorprendente, portando il thrash oltre i suoi confini canonici. Registrato agli Sky Trak Studios di Berlino (Watchtower, Celtic Frost, Destruction) e rifinito ai Morrisound (Death, Obituary, Morbid Angel, Cynic, Atheist e molti altri) di Tampa sotto la supervisione di Scott Burns, appunto produttore leggendario della scena death metal floridiana, il disco si presenta come un concentrato di tecnica, precisione e oscurità. Brani non lineari, incastonati di assoli fluidi e visionari, brillano di un suono limpido e definito che permette a ogni strumento di esprimersi al massimo della propria potenza.
In poco più di trenta minuti, i tre musicisti scolpiscono otto tracce che sono un manifesto di innovazione: riff frenetici ma strutturati, cambi di tempo spiazzanti eppure scorrevoli, assoli melodici e pungenti, sezioni ritmiche che alternano furia thrash, aperture groove e lampi quasi hardcore. Tommy T. Baron si conferma tra i chitarristi più raffinati e creativi della scena mondiale, capace di approcciare il linguaggio progressivo senza mai cadere nell’esibizionismo sterile. Ron Royce sostiene il tutto con un basso granitico e con una voce abrasiva, spigolosa, marchio di fabbrica inconfondibile. Marquis Marky, infine, tesse pattern fluidi e inventivi, rivelando una sensibilità che va ben oltre i confini del metal. Come in tutte le produzioni dei Coroner fino a “Grin”, anche qui domina un tono medio oscuro: diretto ma al tempo stesso complesso e stratificato. L’atmosfera che permea il disco è cupa e claustrofobica, ma mai manieristica. È un buio che diventa linfa vitale per testi e musica, trasformando la brutalità del thrash in un linguaggio adulto e sofisticato. La band dimostra di saper fondere aggressività, intelligenza compositiva e gusto melodico con una naturalezza rara.
L’essenzialità narrata musicalmente in forma altamente evoluta è la chiave di tutto: “No More Color” è privo di riempitivi, ogni passaggio è funzionale e ogni ascolto svela nuove sfumature, nuove soluzioni compositive che si rincorrono senza mai risultare ridondanti. Per questo, molti fan lo considerano il vero capolavoro della band, più maturo e bilanciato rispetto ai lavori precedenti e successivi, in una carriera, va detto, senza passi falsi.
E c’è un aspetto cruciale: spesso si dice che album come “Rust in Peace” dei Megadeth o “Painkiller” dei Judas Priest abbiano rappresentato la chiusura dell’età d’oro del metal tra ’70, ’80 e ’90. Ma un anno prima di quei “sigilli di diamante”, qualcuno aveva già iniziato a gettare le fondamenta della continuità. Non cercando contaminazioni forzate… metal con rap, metal con funk, metal con tribalismi, metal con elettronica…. ma evolvendo talmente tanto il genere stesso da sconfinare oltre ogni aspettativa verso eccellenze di rara qualità, pur non arrivando ai capolavori totali sopra citati… ma arrivando a scolpire un disco che è pura perfezione, tanto da suonare oggi ancora come un modello attuale e degno di rispetto assoluto. Forse, senza “No More Color”, tante cose che ascoltiamo oggi non esisterebbero.
Per questo, a distanza di oltre trent’anni, “No More Color” non è soltanto un riferimento imprescindibile: è un atto fondativo, un monolite che ha dimostrato come il thrash potesse evolversi in forme complesse e raffinate senza perdere ferocia. Non è solo un capitolo nella carriera dei Coroner: è la prova che il metal può farsi arte totale, spingersi oltre i propri confini e alzare l’asticella per tutti. Un disco epocale, che risuona come un patto di fedeltà fra chi lo ascolta e chi, con passione e cuore, lo ha inciso nel marmo della storia.