Recensione: None but a pure heart can sing

Di Tiziano Marasco - 17 Dicembre 2021 - 7:16
None but a pure heart can sing
Band: So Hideous
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2021
Nazione:
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75

Qualcosa, nello stantio mondo del black, sta cambiando. Certo, si ama far passare il black per “quel genere fatto di due accordi e tanti rutti”, ma la realtà non è mai stata davvero questa. Ci sono sempre state tante derive. Il folk black, il goth black, l’atmoblack. L’avantgarde, i Dødheimsgard, i Borknagar. Ma non è che finisce qui. Sono comparsi diversi gruppi che fanno, a detta dei puristi, “finto black metal”. I nomi? Harakiri for the sky e Myrkur su tutti. Igorrr, per i più coraggiosi. A questi nomi, sulla bocca di molti, se ne aggiungono altri, che più di tanto non riescono a far breccia nelle orecchie dei più. I nomi? I White Ward, a una prima analisi. E pure i Netra. Ma con l’uscita di “None but a Pure Heart Can Sing” non sembra tanto errato far rientrare in questa categoria di black “spurio” i So Hideous.

So Hideous che sono poi un quintetto di giovincelli americani con velate ascendenze ispaniche (due di loro fanno cognome Cruz, un altro Vazquez). Formatisi a Nuova York nel 2008, i nostri sono giunti con “None but a Pure Heart Can Sing” al terzo album di studio. E diciamolo subito, mettono in mostra una discreta crescita rispetto al predecessore “Laurestine”. “Lausrestine” che in effetti aveva fatto gridare qualcuno al miracolo ma, sempre in effetti, era a nostro parere un disco molto ben confezionato di post-black orchestrale. Ma li finiva.

Con “None but a Pure Heart Can Sing” (che comunque esce a 6 anni di distanza), però, le cose cambiano. Eccome!

Questo brevilineo album – 5 tracce, 32 minuti – mette in scena una personalità e una chiarezza d’intenti non indifferente. Oltre alla matrice black, c’è anche quella del rock alternativo (cfr Harakiri for the sky -> falso black). E i nomi che vengono in mente – anche se in maniera non del tutto giustificabile – sono molti. Ihsahn, in maniera abbastanza chiara. Protest the Hero, per certe derive math e per il modo di presentarsi dei nostri. Mars Volta, per certe derive latineggianti.

Non ci credete?

Andate a pescarvi ‘The Emerald Pearl’, che potremmo definire anche una delle cinque canzoni più fighe che sentireste in questo 2021 che sta per concludersi. Inizio martellante, ma su un’armonia vagamente latina. Ripetizione ipnotica di quella stessa linea melodica. Innesto di corni stile “romanzo Gabriel Garcia Marquez”. Urla indemoniate di Christopher Cruz. Un pezzo davvero magnifico. Lo trovate nel video qui sotto embeddato. Nel video sono in quattro perché Etienne Vazquez è arrivato dopo eh.

E bene o male ‘The Emerald Pearl’ è un ottimo biglietto da visita per tutto l’album, che in effetti si dimostra compatto sia a livello di impatto sonoro che di unità stilistica.

I problemi, non difficili da risolvere, comunque, ci sono. Il primo, se escludiamo “Emerald Pearl”, sono le vocals. Lo screaming in effetti è sì furibondo, sì viscerale. Ma la sensazione è che sia fato un po’… come piacerebbe a René Ferretti, diciamo. Intendo, lo screaming alle volte sembra messo lì “perché è giusto che ci sia”. Se lo riusciamo a perdonare nella opener “Souvenir (echo)”, che è il pezzo più black del lotto, riesce difficile digerirlo in “Motorisk Visage”. Veramente, ogni tanto ci sono delle sequenze in cui vien da chiedersi se Brandon Cruz stia dicendo qualcosa oppure se sia lì a vomitare un filotto di wraaaaaaaaaaah – graaaaaaah – braaaaah perché gli han detto che va bene così.

Il secondo problema, e fa ridere visto che son anni che mi lamento dei dischi che passano l’ora di durata finendo per essere estenuantemente lunghi, è che quest’album dura poco. O meglio, pare monco. Ai tre pezzi già citati possiamo aggiungere un intermezzo, che è il pezzo più banalmente post- del platter. E poi un outro, anch’esso strumentale, ma molto ispirato. E finisce lì. Ci fosse stato un altro pezzullo da 5/6 minuti forse ci sarebbe stata una soddisfazzione più piena. Così invece, si giunge alla fine della mezz’ora e vien da dire “bello è bello, originale pure, affascinante anche…. Ma tutto qui?”

La sensazione è che “None but a Pure Heart Can Sing” potrebbe fare la gioia di un pubblico molto più giovane di quello che frequenta queste pagine. Perché in effetti è un disco innovativo, che se ne fotte dei generi. È, insomma, un disco comunque da promuovere. Ma è anche un disco fatto per stupire e magari chi è inesperto si lascia stupire senza notarne i difetti (a me era successo, per dire, con “Showbiz” dei Muse). Poi magari adorerà questo disco, come è anche giusto che sia. Anche perché i So hideous hanno un grande potenziale, e qui lo mettono pienamente in mostra. Se continuano su questa strada e risolvono i due problemi precedentemente citati, il loro prossimo lavoro potrebbe tranquillamente essere un instant classic.

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