Recensione: Nordheim

Di Alessandro Zaccarini - 29 Maggio 2005 - 0:00
Nordheim
Band: Gjallarhorn
Etichetta:
Genere:
Anno: 2005
Nazione:
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81

Arrivano al debutto i Gjallarhorn, creatura nata dalle menti di Fenrir e Vali, alle quali si uniscono, per completare la line-up, le sagge mani di Nidhoggr alle quattro corde e le doti di Gungnir dietro le pelli. Che in questo progetto siano coinvolti due membri dei DoomSword (ovvero Deathmaster e Wrathlord) non è un segreto, anzi la promozione ha giocato molto su questo fattore. Non fate però l’errore di liquidare questo disco come un side-project, e non giudicatelo un gruppo nello stile dei DoomSword: cadreste in una rete che ancora prima dell’uscita dell’album ha già raccolto una moltitudine di vittime.

Sul versante concettuale, Nordheim può essere tranquillamente considerato il primo disco viking di un certo livello prodotto in Italia, la prima pietra poggiata in attesa che altri raccolgano, insieme ai Gjallarhorn, l’eredità dei padri scandinavi come già è stato fatto in Germania o nell’est Europa. Cosa non da poco, e che in altri settori metal avrebbe suscitato subito lodi e glorie indiscriminate; ma in questa scena non funziona così. In un genere di nicchia, staccato dagli stilemi fissi e legato invece alla grande componente evocativa, non basta riproporre per primi le cose imparate dai grandi classici per arrivare alla vetta: occorrono ottime idee e un’interpretazione passionale e personale.

Gjallarhorn risuona alto e profondo in Asgard, e mentre gli dei si uniscono a consiglio, gli archi di The Plane of Vigrid si trasmutano nella chitarra dal suono dannatamente bathoryano di The Day Odin Stood Still. Il pezzo, diviso in due sezioni principali, mostra una prima parte più tirata e una post-break più lenta e notevolmente cadenzata, in un tripudio di atmosfere alla Nordland, con i suoni di batteria che, ispirati dalle chitarre, si impregnano di quei toni e di quelle andature tipiche del buon vecchio maestro Quorthon, sostenendo le linee vocali di Vali e i cori maschili grevi.

Alto suona Heimdallr,
il corno è levato nell’aria,
parla Odhinn
col capo di Mìmir
trema Yggdrasill,
il frassino eretto;
geme l’albero antico,
si libera il gigante.
(Voluspà)

Cuore pulsante dell’album è senza alcuna ombra di dubbio il trittico di episodi che compone Ragnarok, la suite centrale. Tre movimenti che si fondono l’uno nell’altro, dando vita a un racconto musicale che si innalza a quanto di più riuscito i Gjallarhorn abbiano composto per questo album.
La trilogia si apre con Blood Over Asgard, gemma di grande potenza evocativa: il corno di Heimdallr suona tre volte, i corvi gracchiano e tra i lamenti lontani e i tocchi di munnharpe, le splendide incalzanti partiture ritmiche di Gungnir guidano il cammino degli einheriar verso una serie di detonazioni che celermente si stabilizzano su un riffing marcato, il cui destino è di spegnersi in un arpeggio distorto tanto caro alla scena estrema. Il figlio di Loki si libera dalla cattività di Lyngvi, e il suo ululato lontano apre Chaos Unleashed, secondo segmento della costruzione armonica e narrativa della grande battaglia finale. Dopo un ritmato palm muting e un refrain profondo e solenne che giunge soltanto a metà brano, questo secondo episodio muta parzialmente in una cadenzata parte intermedia che ci conduce a una successione di chorus imponenti e alla ripresa del theme arpeggiato del brano precedente. In un crescendo di phatos e drammaticità, ad opera soprattutto dell’ennesimo riuscito refrain basso e penetrante e della prova vocale di Vali, il trittico si chiude con la maestosa Ragnarok, dove l’incedere sempre più serrato degli elementi ritmici conduce all’epilogo e allo scoppiettare dei fuochi del dopo battaglia.

Dalle ceneri della grande piana, lunga cento miglia in ogni direzione, emergerà un mondo nuovo, da cui un popolo di fattori e guerrieri partirà navigando per i mari del Nord e i grandi fiumi d’Europa, giungendo a Kiev, Parigi e nel Mediterraneo in un tumulto di furore bellico. Ecco 200 Years of Fury, un pezzo piuttosto singolare con melodie al limite del death metal svedese, capaci di far riecheggiare gli Amon Amarth più epici e cadenzati (in verità già comparsi un paio di volte nell’album, come in Blood Over Asgard). Dalla genesi fino all’epilogo, che si consuma in una dissolvenza tra rumori di armi e di battaglia, il pezzo procede in un incontro tra il viking più epico di scuola Bathory/Falkenbach e i modi che già più volte furono della band di Johan Hegg.

Il dazio che questo album paga ai grandi nomi del viking è alto, e non poteva essere altrimenti dato l’amore viscerale che i due padri di questo progetto nutrono per personaggi come lo scomparso Quorthon. Nonostante ciò, però, la musica dei Gjallarhorn riesce a costruirsi una propria dimensione, dotata di un certo carisma e di una notevole personalità, frutto delle splendide parti di basso (che non sono certo una caratteristica dominante del genere) e delle linee ritmiche incalzanti e profonde che vanno ad affiancare un riffing in continuo bilico tra tradizionalismo e ventate di scuola più estrema. È l’amalgama ideale per la voce sofferta e quasi sporca di Vali, che si intreccia alla struttura musicale in un connubio di ottima fattura, senza mai sovrastare troppo il costrutto musicale e senza mai essere offuscata dalle parti strumentali.

Siamo dunque di fronte a un debut più che buono, con passione da vendere e senza cali di qualità. Nordheim è sicuramente uno dei migliori esordi sentiti negli ultimi anni in terra italica, anche se la forza principale del sentiero intrapreso dai Gjallarhorn è proprio quel distaccamento dagli stilemi nazionali che lo rendono un boccone appetitoso sia per i palati abituati a produzioni mitteleuropee che per gli amanti della scena scandinava. Per chi invece adora le produzioni latine o tipicamente anglosassoni, potrebbe trattarsi di un disco troppo lontano dai propri gusti e dalle proprie vedute.


Tracklist:
1. The Plane of Vigrid
2. The Day Odin Stood Still
3. Ragnarok
   I. Blood Over Asgard
   II. Chaos Unleashed
   III. Ragnarok
4. 200 Years of Fury

NB: Sperando di mettere a tacere prima del tempo eventuali uscite infelici, di personaggi che raccogliendo per l’occasione l’eredità dantesca potremmo definire ‘malparlieri’, mi permetto di aggiungere un paio di righe alla recensione per fissare indiscutibilmente un concetto. È inutile nascondere che in questo disco sia coinvolto come mastermind un amico e un “collega”, che risponde allo pseudonimo di Fenrir e al ruolo di caporedattore black di questo sito. Se pensate, sospettate o rimuginate che questo (o altro) abbia influito sulla valutazione dell’album, siete in totale errore: non è costume del sottoscritto concedere certi favoreggiamenti, e, fortunatamente, non è nemmeno nello stile dell’altra persona coinvolta sollecitarli o auspicarli: è un modo di fare che disgusta entrambi.

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini

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