Recensione: Odes to the Gods

Ai Therion deve essere venuta una specie di nostalgia adolescenziale. Così hanno tirato fuori i vecchi chiodi borchiati, si sono infilati le magliette di Saxon e Iron Maiden e, dopo aver coinvolto anche un paio di amici, si sono messi a suonare heavy metal anni 80. In sintesi, si possono descrivere così i Defenders Of The Faith, progetto nato per iniziativa del chitarrista Christofer Johnsson, con l’intento di rendere il suo personale omaggio alle band della sua giovinezza. Nomi come Judas Priest, Accept, Scorpions, Saxon, Iron Maiden ed altre compagini che sono state gli idoli di una generazione di teenagers ormai già entrata nell’età degli “…anta”. Il resto della formazione dei Defender Of The Faith, vede coinvolti Nalle Påhlsson (basso), Sami Karppinen (batteria), Christian Vidal (chitarra), Thomas Vikström (voce), praticamente già tutti compagni di Johnsson nei Therion, ai quali si vanno ad aggiungere ospiti come Björn Höglund, Chris Davidsson, Diego Valdez e Ripper Owens.
Già prima di aver ascoltato il disco, si notano i riferimenti e le citazioni che il combo svedese ha rivolto nei confronti delle grandi icone del passato. A cominciare dal nome della band, Defenders Of The Faith, che prende inequivocabilmente spunto dall’omonimo disco dei Judas Priest pubblicato nel 1984 e divenuto col tempo una vera pietra miliare del genere. Lo stesso titolo dell’album, “Odes to the Gods“, è un omaggio ai nomi storici della scena metal, a quegli Dei del metallo autori di capolavori entrati ormai nella leggenda. Non è da meno neanche la copertina di questo lavoro, un’immagine quasi scippata all’esordio dei Rainbow, alla quale è stata aggiunta una Flying V presa in prestito da Restless and Wild degli Accept.
Passando all’ascolto del disco, si viene subito travolti dalla ritmica killer di “Heavy Metal Shakedown“, uno speed metal ribaldo alla maniera dei Judas Priest su cui si erge la voce abrasiva di Chris Davidsson. “I’m in Love with My Tank” è un tempo medio con un ritornello orecchiabile di stampo hard rock che vede alternarsi al microfono Thomas Vikström ed il cantante argentino Diego Valdez, già distintosi con i Dio Disciples. “The Time Machine“, la traccia più lunga del disco, inizia con un’andatura epica dalle sfumature orientaleggianti che ricorda qualcosa dei Rainbow. Dopo un paio di cambi di tempo, il pezzo assume un’attitudine molto maideniana con chitarre galoppanti in bella mostra. Il brano, stando alle intenzioni di Johnsson, vuole appunto essere un tributo a quanto fatto, o in questo caso sarebbe meglio dire quanto non fatto dagli Iron Maiden. Come spiega il chitarrista svedese, la genesi del pezzo nasce quando, leggendo la tracklist dell’ultimo album della vergine di ferro, “Senjutsu“, rimase incuriosito dal titolo “The Time Machine“. Quando poi ascoltò il brano, questo si rivelò molto differente da come Johnsson lo aveva inizialmente immaginato. Da qui allora la decisione di scriverne una sua versione, ricalcando lo stile di Steve Harris e soci. Anche “Intruder” nasconde un aneddoto curioso in merito alla sua realizzazione. La traccia inizialmente era stata composta da Johnsson per una sua eventuale collaborazione con i KK’s Priest, ma la cosa non è mai andata in porto. Così la canzone è stata inclusa su “Odes to the Gods” facendola cantare da Ripper Owens. Il risultato è una ruvida bomba alla Accept che ben si adatta alla voce al vetriolo di Owens. Procedendo con l’ascolto, ci imbattiamo in “Northern Stones“, traccia che poggia su un riff di quelli che, in passato, hanno fatto la fortuna degli Scorpions, anche se, a dir la verità, al pezzo in questione manca un po’ l’esplosività di Klaus Meine &Co.
“Funeral Pyre” invece è un godibile hard n’heavy dallo stampo quasi marziale. L’anthemica “Darkside Brigade” vede schierati in campo ben tre vocalist, con Valdez e Davidsson a recitare il ruolo principale e Vikström ad occuparsi dei cori. Su “Our Saviour“, i Defenders Of The Faith sconfinano un po’ nel power degli anni 2000, con le chitarre che si lasciano andare in alcuni passaggi dal gusto neoclassico.
Si chiude con “The End of the World“, una marcia che trae spunto dalle scorribande sonore di Accept e Judas Priest.
“Odes to the Gods” è, tutto sommato, un disco gradevole. Non si tratta di un capolavoro, certo, ma probabilmente non era nemmeno questo l’obiettivo prefissato. Come lo stesso Christofer Johnsson spiega, il suo intento in quest’opera, era provare a recuperare quel groove, quel suono caldo, in cui si possa sentire il legno della chitarra cantare, che il metal avrebbe perso, amalgamandosi con il thrash nel corso degli anni.
In definitiva, “Odes to the Gods‘ è un album fatto per puro divertimento, senza pressioni e senza la paura di dover dimostrare niente a nessuno. Un disco realizzato da un fan del metal per altri appassionati come lui. Non sarà un lavoro imperdibile, ma un paio di ascolti se li può meritare.