Recensione: Our Hands, Your Throat

Di Daniele D'Adamo - 15 Dicembre 2023 - 0:00

Apologia della follia scardinatrice.

I Walking Corpse fanno loro questa frase con il nuovo nonché secondo full-length in carriera, “Our Hands, Your Throat”. Carriera ancora piuttosto breve, cominciata nel 2017 e che annovera, oltre a questo, altre due produzioni: un EP, “Walking Corpse (2019)”, e il debutto su grande scala, “The Fear Takes Hold” (2020).

Grindcore.

Il genere che praticano i Nostri. A modo loro. Cioè, in maniera del tutto personale. Del resto, i tre membri hanno una lunga militanza nel metal estremo, avendo e facendo parte di numerosi act, fra i quali si possono citare Peasant God, Nox Vorago e Disfucked. Musicisti navigati, quindi, capaci di pescare dal loro retroterra culturale i dettami di basi su cui erigere il loro sound.

Henrik Blomqvist e i suoi due compagni, per ciò, non guardano in faccia nessuno. Attaccano senza pietà la giugulare con una violenza (musicale) inusitata, a tratti totalmente devastante. Il grindcore classico è imperniato, fra l’altro, su tracce tutte assai brevi. Qui no. Certo, qualche episodio di un minuto o poco più c’è, il quale coincide con la massima erogazione di potenza. Accanto a questi furibondi coacervi di note, però, sono presenti brani più articolati, strutturati.

Brani in cui sono presenti momenti di pura follia, in cui il cantato di Blomqvist appare simile a un abbaio ma che coinvolgono, anche, tratti rallentati, in cui emergono singulti dal sapore di doom (sic!). Qui le linee vocali prendono le sembianze umane, nel senso che a generarle è una persona, in quanto di antropico c’è ben poco nell’isterico, roco growling che avvolge e strizza la musica.

Si può allora comprendere che il segno caratteristico principale del disco è la varietà, non mancando peraltro segmenti tratteggiati dai mid-tempo. Scorrendo i brani, inoltre, emerge una tecnica strumentale assestata sui più alti livelli del genere. Il che spiega, anche, la molteplicità di intenti che permea sino all’osso il disco stesso.

Il songwriting, difatti, è teso a creare uno stile nel cui DNA è estremamente mutevole l’approccio alla realizzazione delle canzoni, tormentate da una dissonanza assoluta. Nella loro iperbolica anti-musicalità nasce un carattere deciso, forte, saldo. Che, si direbbe quasi incredibilmente, dona alle medesime canzoni un’esistenza singolare, unica. A lungo andare, ma nemmeno troppo, ciascuna di esse prende forma nel cervello, manifestando così il raggiungimento di detto traguardo, arduo ai più.

Certamente l’LP è duro da digerire, talmente è tanta la disarmonia e la complessità che marchiano a fuoco le song. Tuttavia, se si riesce a resistere alla pressione dell’immane muro di suono eretto dal ridetto Blomqvist , da Fredrik Rojas (chitarra, basso) e Magnus Dahlin (batteria, basso), si può godere, per modo di dire data la completa mancanza di melodia, di un lavoro dal nucleo assai dissimile nel modus costruttivo delle particelle elementari che lo compongono. Un centro gravitazionale attorno al quale ruotano gli undici episodi che compongono il platter, anch’essi obbedienti alla regola del «mai uguali a se stessi». Tutti, però, segnati dalla foggia musicale disegnata dal combo svedese che, al contrario, è sostanzialmente unica nell’ambito del metallo oltranzista.

Per tutto quanto sopra, appare evidente che “Our Hands, Your Throat” sia un’opera a uso e consumo dei fan del grindcore più evoluto. I Walking Corpse sono davvero ben preparati e talentuosi nell’eiettare musica ad altro livello di difficoltà, per cui una chance di emergere dalla mota della mediocrità la meritano nel modo più assoluto7.

Annichilenti, con classe.

Daniele “dani66” D’Adamo

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