Recensione: Pariah

Di Alberto Fittarelli - 27 Luglio 2005 - 0:00
Pariah
Band: Naglfar
Etichetta:
Genere:
Anno: 2005
Nazione:
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78

Pare che i Naglfar abbiano trovato una propria stabilità, dopo le note
vicissitudini avute con label varie (o meglio, varie denominazioni della vecchia
Wrong Again Records): un contratto con Century Media è infatti l’approdo sicuro
cui una band di valore come la loro può aspirare tranquillamente. In compenso
le vicissitudini vi sono state all’interno della line-up: il cambio di cantante
improvviso, con la defezione dello storico frontman Jens Rydén per motivi di
studio, sembrava influire non poco, specie giudicando dalla scadente esibizione
del gruppo nel tour di spalla ai Finntroll. Come già detto ampiamente nel
report della data romana
Kristoffer Olivius non è certo un cantante di razza,
specie quanto a timbrica e presenza sul palco: il carisma è molto lontano
dall’esserci, e le sue vocals gracchianti si presentano decisamente inadatte
all’epicità dei Naglfar. Questo, almeno, dal vivo.

Su disco infatti cambia tutto, potenza della tecnologia: praticamente se non
avessi saputo del cambio di cantante non avrei notato la differenza o quasi. Le
parti vocali vengono mantenute lunghe, epiche, tirate allo spasimo ed
estremamente potenti, adatte a quello che è comunque il disco più feroce mai
pubblicato dalla band di Umeå; i riff sono sempre appannaggio della melodia
tagliente gestita dai chitarristi, Vargher e Andreas Nilsson, con il solito
drumming veloce, seppur non particolarmente complesso, di Mattias Grahn.
Pariah
è un album che come sempre, perlomeno da Diabolical in poi, fa leva su parti
uguali di melodia e ferocia: la caratteristica tipica dei Naglfar è quella di
conferire armonie ed atmosfere epiche alla propria musica senza l’utilizzo di
tastiere, se non per qualche leggero background qua e là. Una qualità che
rende unico il loro sound, che come si sa parte dal black di impostazione
tipicamente svedese per evolverlo.

Rispetto al precedente Sheol qui c’è un amalgama maggiormente riuscito, è
innegabile: la tracklist scorre liscia, senza momenti di noia o quegli episodi
un po’ trascurabili che facevano del predecessore “solo” un buon
album. Pariah è compatto, trova gli arrangiamenti giusti,
conforta i fan del gruppo sullo stato di salute compositiva di quella che è
stata una delle stelle più brillanti del firmamento scandinavo; e ci consegna
una prova di malignità ancor più profonda che su Diabolical,
forse il disco che maggiormente si avvicina quanto ad atmosfere a questo nuovo
capitolo. Non manca, tra proiettili come A Swarm Of Plagues (che, come
sempre, unisce violenza ad una certa “orecchiabilità”, specie nel
chorus) e The Murder Manifesto, un pezzo cadenzato e forse anche più
inquietante come The Perpetual Horrors, il giusto break in una scaletta
azzeccatissima.

Un nuovo passo in avanti, lento ma deciso, incastonato in una carriera
pressoché perfetta: dedicato ai nostalgici, o ai semplici amanti del buon black
metal di una volta, quello contaminato, complesso e per questo molto più
difficoltoso del sound da caverna con chitarra scordata che tanto va per la maggiore oggi.

Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli

Tracklist:

1. Proclamation
2. A Swarm Of Plagues
3. Spoken Words Of Venom
4. The Murder Manifesto
5. Revelations Carved In Flesh
6. None Shall Be Spared
7. And The World Shall Be Your Grave
8. The Perpetual Horrors
9. Carnal Scorn & Spiritual Malice

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