Recensione: Pathology

Di Daniele Ruggiero - 20 Luglio 2017 - 7:00
Pathology
Band: Pathology
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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68

Prendete una casa abbandonata, violentata dalla decadenza, dal marciume e dalla follia. Attraversate le stanze, i corridoi ed il buio sino ad arrivare in giardino: davanti a voi un’insana piscina nella quale giace immobile un putrido liquido marrone, sovrastato da insetti ed odori raccapriccianti. Ora, per qualche inspiegabile motivo, immaginate di caderci dentro, iniziare ad annaspare e farvi prendere letteralmente dal panico. Sotto di voi un tappo deteriorato decide, in quel preciso istante, di cedere alle lusinghe del tempo e sgretolarsi: inizia così un delirante deflusso che vi condurrà nelle profondità più nocive dell’immaginazione.

“Pathology” è dunque una caduta nei meandri più bui e sporchi di un death metal infetto dall’aggressivo virus brutal. Un virus capace di insinuarsi nel DNA del genere sopracitato sedandone i ritmi ed alterandone l’aspetto in qualcosa di estremamente ripugnante.

Le sonorità sono fluide e vischiose, concentrate in un getto corposo e potente nel quale ribollono riff di chitarra feroci. Nel condotto fognario rimbomba il rigurgito tossico e nauseabondo di Matti Way che modula incessantemente il suo denso “grugnito”. Le atmosfere sono piuttosto pesanti, caratterizzate da un senso di asfissia generato da una ritmica rocciosa e nitida ma decisamente statica. Sono infatti ben poche le virate presenti in questa rapida discesa che, a causa di improvvisi e rari dislivelli, aumenta di velocità ma nulla di più. Il drumming ossessivo detta i tempi di una tortura che, nel corso di trentadue minuti, provoca lievi lacerazioni ed un terribile senso di oppressione nel quale si resta intrappolati. Il sound primitivo e brutale prolifera nelle acque sporche di “Pathology” che trascinano con sé tutto l’orrido di un mondo in apnea.

La finale ‘Vermilion’ lascia intravedere un bagliore lontano circondato da un timido e melodico assolo di chitarra che si dissolve nelle torbide acque di un canale inquinato dove svaniscono i sogni e si propaga la ributtante realtà.

L’omonimo album della band californiana non è affatto male in termini di qualità, la produzione è di alto livello, ma è la quantità a non convincere del tutto. Ciò che manca maggiormente è quel maledetto colpo di scena da provocare un sussulto, da impressionare colui che, volutamente o per errore, sia caduto in quella fetida vasca senza, ahimè, bagnarsi.

 

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