Recensione: Pictures

Di Fabio Vellata - 29 Gennaio 2020 - 0:05
Pictures
Band: Virtual Time
Etichetta: Go Down Records
Genere: Hard Rock 
Anno: 2019
Nazione:
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80

Fascinosissimi ed intriganti.
I Virtual Time, band bassanese fondata nel 2012, sono probabilmente uno dei migliori esempi di classic rock partorito dall’underground italiano negli ultimi anni.
Un gruppo dinamico, alfiere di un modo di far musica che non ha alcunché di statico o fossilizzato nel tempo ma anzi, si alimenta di mille sfumature diverse, abbracciando tutto lo scibile del rock scritto e costruito dal 1970 ad oggi.
Dal country all’hard, dalle ombre di psichedelia al pop rock, passando per echi shoegaze e sventagliate seventies: nel calderone dei Virtual Time si può trovare un po’ di tutto. Sempre però, scritto e prodotto con molto stile, con grande eleganza ed una sicurezza nel maneggiare un accrocchio tanto composito d’influenze che è patrimonio tipico dei grandi musicisti.

Pictures”, oltre a rappresentare un progetto complessivo composto da cinque album (quattro da studio e uno live) è, concretamente, una sorta di greatest hits conclusivo che suggella un viaggio iniziato con il debutto “From the Roots to A Folded Sky” e giunto a compimento nel 2019 con la coppia di cd intitolati “The Circle” e “A Go-Gi-Ca”, cd dall’anima profondamente diversa che, ancora una volta, hanno avuto modo di approfondire la natura multiforme e complessa del quartetto veneto.

Led Zeppelin, David Bowie, Lou Reed, Santana, Neil Young, Tame Impala e Counting Crows si susseguono concatenandosi senza soluzione di continuità: si parte dalla classicità di pezzi come “Charmed”, “Just You” e “Beyond the Sun” – estratti dall’esordio – per arrivare al rock più mainstream ed a tratti introspettivo delle conclusive “Nowhere Land“, “Falling Away” (che pezzo!) “She” e “Distant Shores“, piccoli capolavori estratti dal già citato “A Go-Gi-Ca”, disco visionario, evocativo ed allucinogeno che rappresenta, a detta di chi scrive, l’apice di quanto prodotto sin qui dai Virtual Time.

Non mancano episodi derivanti anche da “Animal Regression” (2018), momento centrale della carriera che ancora riferiva in maniera evidente di suggestioni classic rock, a cavallo tra stoner, psychedelia e chitarroni in pieno stile anni settanta.
Nulla invece dal recentissimo “The Circle”, disco che ha rappresentato un passaggio in cui lasciar da parte nervosismo elettrico e tensione emotiva, a favore di un approccio acustico e soffuso. Un album che forse proprio per la sua atipicità non ha trovato spazio in quello che, all’ascolto, appare come un flusso di note coeso e ben amalgamato, unito da un filo conduttore solido e coerente.

Un riassunto ben mirato e concepito della produzione di una band ricca di valori interessanti e buone idee. Personalità magmatica e ribollente, caratteri di un gruppo di ottimi musicisti che probabilmente meriterebbe qualche riconoscimento in più al cospetto del grande pubblico.

 

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