Recensione: Prometheus – Symphonia Ignis Divinus

Di Luca Montini - 6 Luglio 2015 - 18:30
Prometheus – Symphonia Ignis Divinus
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2015
Nazione:
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80

Exurgat Deus et fiat lux in tenebris
Stellarum Veritas, nova genesis…

 

Palingenesi rhapsodiana. Fenomenologia. Luca Turilli ed Alex Staropoli, le due anime della band triestina che sollevò imperiosa la bandiera italiana nel cielo del metallo internazionale, dopo lo split del 2011, hanno intrapreso due percorsi opposti ma complementari. Il primo, creativo ed ispirato, esce subito con un nuovo full-length con un titolo che è ben più di un manifesto programmatico: “Ascending to Infinity” (2012), il secondo, più sanguigno e ‘coi piedi per terra’, dapprima si presenta al pubblico con un tour, poi produce un live album: “Live – From Chaos to Eternity” (2013) e successivamente, solo qualche mese dopo, pubblica infine il full-length: “Dark Wings of Steel” (2013). I Luca Turilli’s Rhapsody (d’ora in poi semplicemente Rhapsody) hanno immantinente ripreso quello che fu il percorso artistico del Turilli solista, dagli inserti elettronici di Prophet of the Last Eclipse (2002) e soprattutto del progetto Dreamquest (2006), ai temi trattati non più prettamente fantasy, che muovono dal generico amore per la natura, al mistico religioso all’alchemico al filosofico, fino alle speculazioni spiritualiste più spinte dei paradossi della meccanica quantistica. Sperimentazioni a non finire e desiderio di spingersi sempre oltre: con gli effetti speciali, coi cori, con l’epicità e con il tanto sbandierato aspetto ‘cinematic’ che contraddistingue la sua musica. D’altro canto, i Rhapsody of Fire col loro ultimo disco hanno mostrato l’aspetto della band più muscolare, quadrato, manowariano e riff-oriented.
Da un lato l’anima creativa, solistica e neoclassica, dall’altro quella più heavy. In questa frenesia dialettica possiamo agilmente inserire “Prometheus – Symphonia Ignis Divinus”: l’ultimo lavoro di un Turilli sempre più libero di sperimentare e di osare oltre i numerosi vincoli imposti in passato da un secondo autore e da una saga con una cosmologia da rispettare.

Il metal è un genere estremo. Luca Turilli è un personaggio estremo. Anche nella sua estrema umiltà. La sua ricerca invereconda verso l’infinito, la spiritualità e la consapevolezza lo spinge a mostrare ogni aspetto dell’uomo dietro al pentagramma, senza alcun senso del limite. Cori, orchestra, musica elettronica, chitarra, tastiera, basso e batteria, missati tutti assieme alla ricerca di una qualche pietra filosofale del cinematico, del barocco e del bombastico. In questo Luca è riuscito a crearsi un inimitabile sottogenere tutto suo, che con la nuova libertà compositiva concessagli dai ‘suoi’ Rhapsody vuole spingere, come già detto, all’estremo.
Alla prova dei fatti, eccoci allora dinanzi all’intro orchestrale e corale “Nova Genesis”, vero e proprio brano di tre minuti, capace di far tremare i nostri impianti Hi-Fi sottolineando l’ottimo lavoro di Sebastian Roeder a livello di suoni. Stacco di pianoforte e subito un pezzo da novanta in lingua italiana: “Il Cigno Nero” ci presenta un super Alessandro Conti che sorvola altezze da Andrè Matos nel ritornello. Audace, anche se forse le troppe sovrancisioni e le tonalità altissime raggiunte impediscono di comprendere il (comunque astruso) testo senza ricorrere al booklet come nemmeno il peggio disco black metal. Discreto il primo singolo “Rosenkreuz (The Rose And The Cross)”, che comunque eguaglia lo spiazzamento provato con “Dark Fate of Atlantis”: un melting pot di cori, orchestra ed elettronica. Ancora un immenso Conti sulla melodia orientale di “Anahata”, che incede quasi come un mantra.
Altro picco qualitativo ne “Il Tempo Degli Dèi”, con le chitarre ritmiche lasciate in secondo piano in un brano che esplode nel chorus 100% Rhapsody, tipico pezzo da cantare a squarciagola in macchina. C’è anche una celebre citazione del maestro spirituale Gustavo Rol, come Luca stesso ci ha spiegato nella nostra intervista.
Ispirata da un viaggio in Nuova Zelanda, terra in cui è stata girata la trilogia di Peter Jackson sul capolavoro di Tolkien, “One Ring to Rule Them All” ci riporta alle prime fasi del viaggio di Frodo Baggings, nel suo percorso dalla Contea verso le terre di Mordor. Geniale il pre-chorus in linguaggio nero (Ash nazg durbatulûk, ash nazg gimbatul, ash nazg thrakatulûk, agh burzum-ishi krimpatul / Un anello per domarli, un anello per trovarli. Un anello per ghermirli e nel buio incatenarli), così come l’intermezzo folk di tastiera/flauto preceduto dal duetto tra il Conti ed Émilie Ragni (e ci sono pure gli uccellini!). Curiosità: il Gollum che apre e chiude il pezzo è proprio Alessandro e non l’originale Peter Woodthorpe. Ancora Émilie Ragni protagonista nella ballata “Notturno”, brano operistico ispirato dal bellissimo Notturno N.1, Op.72 di Chopin.
Secondo singolo del disco e quasi-titletrack: “Prometheus”. Messaggi subliminali (?!) a parte, probabilmente il pezzo più diretto dell’intero platter: presenti infatti tutti gli stilemi turilliani 2.0: i vocioni del coro, Conti su tonalità altissime, testo incomprensibile tra inglese e latino, elettronica e pure l’orchestra. Curioso il solo, lento su pianoforte e in sweep picking sulla voce femminile, per poi concludersi assieme alla tastiera. Presente anche la voce di Ralf Scheepers (ex-Gamma Ray, Prima Fear) nel coro… ora non resta che trovarla tra tutte quelle millemila voci.
Di nuovo in oriente con “King Solomon and 72 Names of God”, in cui David Readman (Pink Cream 69) duetta con Conti tra segreti multiversali legati alla tradizione tra cabalistica ebraica ed alchimia araba, riguardante la leggendaria Chiave di Salomone, testo in verità risalente alla tradizione magica medioevale. Torna anche la doppia cassa ed un assolo neoclassico degno della storia del solista italiano, peccato forse per la prolissità del brano. Per non farsi mancar nulla, dall’albero della vita cabalistico si passa all’albero cosmico della mitologia norrena in “Yggdrasil”, in un pezzo che finalmente riprende in toto lo stile più canonico del power metal dei Rhapsody, con un riff di chitarra facilmente distinguibile, l’assolo incrociato chitarra-tastiera ed il solito ritornello corale dal gran tiro.
Difficile invece da descrivere la suite finale “Of Michael The Archangel And Lucifer’s Fall Part II: Codex Nemesis”, che segue nei temi l’episodio biblico del disco precedente, e di nuovo si fa carico di un pesante testo in latino con un chorus melodico (Viri sanguinum, codex nemesis…) preceduto da un pre-chorus più ostico con un climax in contrappunto (Draco magnus est proiectus…) a dare l’impressione di un impetuoso crescendo. Al centro della composizione, un lungo tema cinematico che ci mostra il lato più progressivo di Turilli, sempre spinto verso ritmiche incedenti, che passo dopo passo si infrangono in episodi solisti e poi corali, verso conclusione della fabula nell’epico chorus finale.
Dopo l’epilogo, la limited edition in digipack (ma anche Spotify) include anche la cover di “Thundersteel” (1988) dei Riot in stile cinematic metal, in una bizzarra sintesi tra heavy e power sinfonico. Conti strepitoso, al solito, nella sua incredibile versatilità.

Ogni ricerca estrema ha un’altra faccia della medaglia che ne costituisce l’antimateria: nel nostro caso, neanche a dirlo, è una pesante dose di consapevole ingenuità, nell’eccessiva ridondanza barocco-metal-coristico-orchestrale di alcuni episodi che certamente non convinceranno i detrattori storici del Turilli solista, né tantomeno i fan dei Rhapsody della prima ora, quelli che si emozionavano ad ogni scontro di Dargor e del Guerriero di Ghiaccio tra elfi, nani, draghi e stregoni, che difficilmente digeriranno l’astrusità di questi testi e temi da panettone quantico-newage-adamkadmoniano.
Per quanto concerne la mia opinione di recensore, tuttavia, non posso che apprezzare il coraggio del Turilli Nazionale nel continuare ad elaborare e ricercare nuovi sentieri tra generi musicali, lingue e temi apparentemente inconciliabili, evolvendo continuamente nel percorso artistico iniziato ormai tanti anni fa, da quel “Prophet of the Last Eclipse” che fu un parziale punto di rottura dal mainstream fantasy targato Rhapsody, e che ha visto nel vulcanesimo creativo di “Ascending to Infinity” e nel successivo “Prometheus – Symphonia Ignis Divinus” due picchi creativi di ineguagliabile genialità e sregolatezza.

Luca “Montsteen” Montini
 


 

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