Recensione: Qui Nobis Maledictum Velit

Di Alessandro Calvi - 15 Agosto 2016 - 9:30
Qui Nobis Maledictum Velit
Band: Filii Eliae
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2014
Nazione:
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I Filii Eliae nascono, con questo nome, solo nel 2010, ad opera dei fratelli salernitani Maurizio (Martirium) e Roberto (Ossibus Ignotis) Figliolia. In realtà, però, la loro storia è molto più lunga: è fin dal 1985 che i due fanno musica, e su questo si può aprire una piccola parentesi. Se qualcuno cercasse un monicker di successo, con cui divenire famoso, forse dovrebbe rivolgersi proprio ai fratelli Figliolia. La loro prima band, nel 1985, infatti, si chiamava Mayhem, nome che ovviamente furono ben presto costretti a cambiare vista l’esplosione del fenomeno black in nordeuropa. Eccoli quindi, nel 1990, cambiare nome in Enslaved. Inutile dire che neanche questo sarebbe durato a lungo, se non fosse che nel frattempo il duo era entrato in una fase di silenzio e di riflessione. Ad anni di distanza, eccoli ritornare in pista con questo nuovo progetto chiamato Filii Eliae e con questo “Qui Nobis Maledictum Velit“, sempre che qualcun altro non diventi subito famosissimo con questo nome.

Se le radici del gruppo e dei musicisti che lo compongono affondano negli anni ’80, altrettanto si può dire della musica. Nel sound dei Filii Eliae, infatti, si può trovare un po’ di tutto: dal thrash all’heavy classico, dal power al doom a un ruvido e sgraziato black metal delle origini, il tutto mescolato con synth e un gusto per la composizione che ci fa davvero fare un salto indietro nel tempo. Si tratta di un sound vecchio, nel senso che riporta alla mente un tempo in cui certi generi non si erano ancora completamente definiti e codificati, un tempo in cui vi era forse maggiore sperimentazione e ognuno nella sua musica ci metteva dentro quello che si sentiva, senza stare a controllare se era canon o meno, se era lecito o meno inserire quello strumento o quel riff in un brano. L’importante era solo che il risultato finale fosse metal.
I primi paragoni che saltano alla mente sono certamente con i Celtic Frost, per alcune sonorità e scelte in fase di songwriting, ma anche con i nostrani Death SS, anche in loro, soprattutto nei loro brani storici, troviamo questo compendio di sonorità, questo mescolio di generi diversi, il tutto, però, sempre sotto un’unica cappa luciferina e oscura. I Filii Eliae fanno esattamente lo stesso: pur girando come trottole da un estremo all’altro (e pur rimandando lampi di dejà-vù in continuazione), seguendo solo la convenienza del brano e l’ispirazione della composizione, riescono a mantenere una atmosfera funerea, gelida e sepolcrale che ben si adatta al tema del CD.
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque, potremmo dire. Primo perché i fratelli Figliolia non guardano avanti a creare qualcosa di nuovo, un nuovo sound, un nuovo genere, bensì al passato quando i generi non esistevano ancora. Secondo perché le loro composizioni, seppur marce al punto giusto e genuinamente metal come non sentivamo da un pezzo, sono a loro volta rimandi a un tempo che fu. Echi di Celtic Frost e Death SS su tutti, ma anche molti altri, si inseguono per tutte le nove tracce della tracklist in un risultato finale che è sì buono, orecchiabile, estremamente godibile, ma ha ben poco di originale. Intendiamoci, i Filii Eliae sanno scrivere e suonare, l’esperienza di tutti questi anni è dalla loro, i brani sono scritti benissimo e da un punto di vista formale non abbiamo praticamente nulla da imputargli. Il disco nella sua interezza, inoltre, sembra una gustosa birra ghiacciata dopo una giornata di lavoro sotto il sole: rinfrescante, gradevole, proprio quello che ci voleva. Ma è anche quella stessa birra che, in un’altra occasione, giudicheremmo come un po’ sciapa, senza carattere, che non ci dà niente di nuovo.
A risollevare, in parte, il giudizio meramente razionale, più che emozionale, la decisione di comporre tutti i testi in latino. Scelta decisamente azzeccata e assolutamente apprezzata, perché non facile. L’uso di questa lingua, inoltre, dà anche maggiore spessore ed epicità alle canzoni e permette linee vocali diverse dal classico, e fin troppo abusato, inglese.

La produzione, in questo caso, fa il suo lavoro e porta a casa il risultato, contribuendo a dare a tutto il platter quell’aura da una parte ottantiana e dall’altra gelida, fredda e vagamente inquietante che la band voleva. Purtroppo, però, non possiamo esimerci dal criticare l’aspetto grafico della confezione, per nulla all’altezza della proposta musicale. La foto della stanza con tutte le bare è piatta, anonima, senza atmosfera, sembra scattata con una macchinetta usa e getta. Peggio va a quella in bianco e nero dei tre membri del gruppo che portano una bara su per una scalinata, evidentemente di bassissima risoluzione e orrendamente deturpata da enormi pixel. In questo caso, pur trattandosi di una evidente autoproduzione (nonostante la dicitura Lvx Perpetva Records), guardando anche alla media dei demo che escono nell’ultimo periodo, è lecito aspettarsi una cura estetica maggiore.

Per concludere: “Qui Nobis Maledictum Velit” è una rinfrescante bevuta che ci riporta il sapore dei tempi che furono, un tuffo indietro nel tempo senza compromessi. I Filii Eliae sono stati bravi a comporre un disco che va dritto alla pancia e che si gusta dall’inizio alla fine di pura emotività.
Riascoltando l’album di testa, però, lasciando da parte le sensazioni che rimembra e concentrandosi solo su una disamina razionale, non possiamo che rilevare l’assenza di una vera originalità, la mancanza di qualcosa di nuovo e davvero personale. Dunque un bel disco, genuinamente metal, come forse non se ne sentivano da anni, ma a cui manca ancora qualcosa per fare davvero il salto di qualità.

Alex “Engash-Krul” Calvi

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