Recensione: Rebellion Party

Di Pasquale Ninni e Leonardo Ascatigno - 18 Novembre 2021 - 23:06
Rebellion Party
70

Secondo il credo comune il regno della perfezione, ma non inteso nell’accezione tennistica dell’espressione così come il documentario su John McEnroe si titola, non esiste anche se, così come testimoniato da Ireneo di Lione, alcuni paradigmi possono generarla e comunque sia, ove mai questo regno dovesse esistere, non ci sarebbero, aprioristicamente, sicurezze e certezze assolute.

Quindi, anche nel migliore dei mondi, non si potrebbero avere tutte le convinzioni a certificazione di un vivere sereno e lineare, ma come è ben noto esistono dei postulati che si ergono e rimangono lì inattaccabili e a tutela umana a suggerire che su alcuni principi, nonostante tutto, si può fare affidamento.

Tra queste diverse certezze, in grado di attraversare trasversalmente e verticalmente ogni cielo e cerchio della vita, qualcuna è inamovibile e onnipresente e tra queste ricordiamo, per esempio, la presenza continua e costante di Andreotti nella scena politica italiana, l’eterna questione se l’apice del Prog è rappresentato dagli Yes o dai Genesis, il dibattito mai chiuso su chi era più forte tra Senna e Prost e infine, ma non per ultimo in ordine di importanza, il sogno di qualsiasi chitarrista (o aspirante tale), di produrre un album strumentale (o quasi esclusivamente) dove l’occhio di bue è puntato, continuamente, sulla chitarra. Su questa volontà, che si rimanga mestieranti o che si sfiori l’empireo delle sei corde, sicuramente hanno le proprie responsabilità i dischi con i quali tutti i chitarristi, chi più chi meno, sono maturati; per esempio i lavori di Steve Vai, Joe Satriani, Yngwie Malmsteen e tutta la compagnia suonante che, si può affermare, per diverse motivazioni rappresentano la vera Bibbia della chitarra.

Questa volontà, nel tempo, ha generato prodotti dal valore multiforme e variegato e a questa regola non è sfuggito il chitarrista di lungo corso Gabriele Bellini con il suo ultimo lavoro intitolato Rebellion Party.

Bellini, chitarrista italiano con una lunghissima carriera come musicista e insegnante oltre che grande sperimentatore, in linea con il suo valore, con Rebellion Party ha portato alla luce un album positivamente asfissiante, con veleni sparsi e colpi proibiti, fatto di un coinvolgimento musicale totale e che racconta, fuori dal contesto musicale, di una forte tenacia e di una marcata coerenza inserendosi nella traccia, profonda e oscura, dei lavori musicali chitarristici.

Mettendo in play ci si ritrova ad ascoltare l’opener che ha il compito ingrato di far capire le sonorità che verranno utilizzate per tutto il platter. Il tema è più un ostinato che altro, si gioca sulle riverberazioni e sull’alternanza tra suoni saturi di gain e altri con meno carica. L’intro di Next Colors gioca sulle ottave basse ed è accompagnato da un simpatico video clip uscito il 16 luglio scorso.

Il rock chitarristico è di stampo classico, in alcuni passaggi ricorda Rock Solid Guitar di David T. Chastain uscito nel 2001, almeno se pensiamo al lato accordale e alle suddette parti in ottava.

Resilient Moment è tra i punti più alti dell’intero Rebellion Party, soprattutto negli intermezzi tra un tema e l’altro, mentre 5Th Element è l’opera forse più pomposa, simil prog in alcuni passaggi, e piena di cambi di tempo.

Vox Populi ha un riff di sicuro effetto e le ritmiche sono il punto di forza di questo brano; il change al minuto 1:42 risulta molto godibile con ampio respiro sul finale.

Stessa sorte per Omibus: riffing molto convincente e note tenute coronate in contrapposizione.

LuMaMeGiVeSaDo rappresenta un vero esperimento sonoro: Gabriele Bellini è da solo sotto i riflettori e da una parte essenzialmente eterea si arriva improvvisamente a suonare del Country.

In questo Rebellion Party ci sono anche molti intermezzi con strumenti acustici, volendo anche un po’ divagare verso territori un po’ più etnici, tante parti melodiche armonizzate per terze e addirittura ritmiche molto pesanti e taglienti. La struttura-tipo delle song non brilla per originalità e giusta è la scelta di utilizzare diversi colori alle ritmiche (soprattutto pulite) con Phaser ed effetti simili per rendere il tutto un po’ meno “per gli addetti ai lavori”.

Sinking To Rise Again ha uno start davvero interessante, coinvolgente, evocativo e capace di catturare l’attenzione per l’ascolto in toto del brano. Batteria e chitarra sola duettano sul primo chorus, ma in questo punto del disco ormai si è davvero detto tutto, anche con qualche ripetizione di troppo.

La finale The Whole è tra le più ispirate, il drumming segue alla perfezione le idee chitarristiche e gli stacchi donano una vena più drammatica a tutto. Peccato per il finale, davvero brusco e fuori contesto (un po’ come in No Fears, la decima track).

Un album che marca stretto il mondo della chitarra, senza adoperare nessuna rivoluzione, ma che racconta una “stagione” personale molto suggestiva, interessante e coerente. Visto e ascoltato così ce n’è abbastanza per comprendere che da qui in avanti Gabriele Bellini, tra esperienza e motivazione, produrrà altri lavori avvolgenti e suggestivi continuando a soffiare sulla brace per mantenere sempre accesa quella fiammella, ormai pluriennale, della passione.

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