Recensione: Renegades

Di Carlo Passa - 24 Novembre 2020 - 12:04

Ogni volta che mi capita per le mani un disco degli L.A. Guns da recensire me le metto nei (pochi) capelli, perché so che dovrò innanzitutto capire con chi ho a che fare. Come è ben noto, infatti, le beghe legali per il possesso del nome L.A. Guns si sono risolte con la salomonica decisione che possono esistere due bad omonime: una capitanata da Phil Lewis (e negli ultimi anni anche Tracii Guns) e l’altra dal batterista Steve Riley, affiancato dal bassista, e altro membro fondatore degli L.A. Guns originali, Kelly Nickels. Vi siete persi? non siete i soli. Se aggiungiamo che quel “Guns” fa la propria figura anche nel ben più altisonante monicker Guns ‘n’ Roses, abbiamo tutto uno spaccato della storia dello street rock sul Sunset Strip.
A questo giro, gli L.A. Guns che risuonano nelle mie orecchie sono quelli un po’ di serie B, ovvero dei ‘rinnegati’ Riley e Nickels, inevitabilmente un passo indietro rispetto alle primedonne Lewis e Guns.
Tutto ciò detto, alla fine ciò che conta veramente è solo la musica, che però, va sottolineato, è arrivata alle mie orecchie proprio in virtù del nome sulla copertina, oltremodo ripetitiva. E la musica di Renegades si lascia ascoltare volentieri, ricalcando la proposta che gli L.A. Guns (chiunque essi siano) mettono su disco da più di un trentennio. E va detto che un tratto positivo di Renegades consiste proprio nella personalità della band, che suona convinta e dinamica.

Crawl, ben scelta come opener, sarebbe potuta essere pubblicata su uno dei grandi album di fine anni ottanta della band statunitense, con quel suo andamento sleaze volutamente slabbrato. Più moderna, ma non modernista, è invece Why Ask Why, simpatica ma non troppo incisiva.
Kurt Frohlich si difende bene sulla pesante Well Oiled Machine, che un po’ ricorda la degenerazione proto-grunge dei primissimi anni novanta; e strizza un occhio ai Warrior Soul. Lost Boys non disdegna atmosfere cangianti, alterne tra la strofa melanconica e il ritornello tirato, che dovrebbe dare il proprio meglio dal vivo.
You Can’t Walk Away è la classica ballad che potreste aspettarvi dagli L.A. Guns, benché è ovvio che il confronto con The Ballad of Jayne, inevitabile, non possa nemmeno porsi. Witchcraft ha un bel tiro sleaze, mentre All That You Are gode di una buona linea melodica. E se Would è un ballatone intimista per chitarra acustica, in vero piuttosto vano, la title-track Renegades piace perché non concede un attimo di respiro e sembra davvero un autotreno lanciato a tutta velocità su un’highway americana: l’apice del disco. Infine, Don’t Wanna Know ha uno di quei giri di chitarra super groove che sono propri degli L.A. Guns: e anche solo per questo ci risulta simpatica.
Insomma, se Renegades fosse stato tutto come la sua title-track o Crawl, sarebbe stato un ottimo disco. Purtroppo, non è così: non mancano i momenti secondari e, diciamolo, di qualità compositiva non sempre alta. Ma perdoniamo qualche sbavatura a chi ci crede da così tanti anni! e ringraziamoli per averci allietati l’adolescenza, facendoci sognare le stripper del Sunset Strip. Gli anni sono passati, ma gli L.A. Guns sono ancora con noi. Anzi, si sono pure moltiplicati. Non lamentiamoci.

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