Recensione: Repentless

Di Marco Giono - 16 Settembre 2015 - 1:01
Repentless
Band: Slayer
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2015
Nazione:
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75

Discendere negli inferi.  Striature di rosso, di grigio e di un ocra beffardo diventano sfondo a quelli che una volta erano visi, ora in realtà compaiono come resti di paralisi ossee in una smorfia di stupefatto orrore. I teschi riempiono gli spazi, ma non ci sono solo quelli. Demoni ovunque, tratteggiati alla stregua di un cartone animato, ma mai innocui.

Immagini perse nei recessi della mia memoria riaffiorano ogni volta che ripercorro a ritroso le iconiche copertine che hanno scandito la discografia degli Slayer. Già nella prima decade di vita erano riusciti con il loro thrash e quell’arte figurativa (tra le più belle copertine proprio quelle disegnate da Larry Carroll ed in particolare ricorderei quella di Reign in Blood) a definire il mondo degli abissi sulfurei grazie a riff primordiali e partiture che pur rimanendo ingabbiate da barriere formali erano state in grado di sovvertire i canoni: con Reign in Blood diventavano ad esempio musa per il death metal. Dai fondali estremi della gioventù devono risalire in superficie chiamati ad affrontare il demone più temibile: il tempo. Provano a essere contemporanei, assimilano elementi di groove metal, tuttavia Diabolus in Musica rimane un album controverso, il loro thrash forse era già avanguardia così non resta altro da fare che tornare sui propri passi in modo da aggiornare le proprie origini. 

A mio modo di vedere negli ultimi tempi erano riusciti a far bene con Christ Illusion e con God Hates Us All dove i riff di Jeff Hanneman trovavano corrispondenza nella propulsione mai fine a se stessa di Dave Lombardo (su Christ Illusion) mentre Araya rigettava parole come fossero pugnali. Diversamente il loro ultimo lavoro intitolato World Painted Blood stentava rispetto ai suoi due nobili predecessori. Trascorrono sei anni e gli Slayer si ritrovano per cause diverse senza due musicisti di valore. Dave Lombardo lascia la band per questioni contrattuali, mentre Hanneman non sopravvive ad una cirrosi epatica causata probabilmente dalla sua dipendenza dall’alcool. Gary Holt, chitarrista degli Exodus, già chiamato a fare il turnista nel 2011, diventa membro effettivo degli Slayer. Il posto di Dave Lombardo viene preso in un primo momento da Jon Dette, per poi essere rimpiazzato da Paul Bostaph; l’esatto opposto di quanto successe nel 1996 quando Bostaph lasciò gli Slayer per dedicarsi al suo side progetto The Truth and the Sea Food. Se Araya per sua stessa ammissione non contribuisce al momento alla composizione dei brani, per lo stesso Gary Holt è davvero presto per inserirsi nelle trame musicali degli Slayer dato il suo riffing riconoscibile, non rimane che affidarsi a Kerry King per la stesura della maggior parte dei brani di Repentless, nuova creatura del gruppo americano.

Un arpeggio vibra scintille a dialogare in riff colmi di oscurità; ci troviamo immersi nell’intro “Delusions of Saviour” nell’intento di scoperchiare un vaso di pandora fatto di note antiche e violente. Funziona perché è minimale, non sovraccaricata più di tanto da rischiare di risultare finta.

Filo spinato. Sbarre di ferro esplodono in riff blindati. Seguiamo la scia di sangue che striscia implacabile mietendo vittime. I carcerati battagliano nel caos, alcuni cercano la fuga, altri vendetta. Uno tra loro, quando la vittoria sembra vicina, ritorna volontariamente nella propria cella. L’impossibilità di salvarsi dal codice con cui siamo stati programmati? Probabile. Certa è la dedica del video del brano “Repentless” all’amico Jeff Hanneman, non in grado di liberarsi i propri demoni

La title-track è puro thrash d’assalto che affonda le radici nella strada e diventa manifesto d’intenti. Intenti bellicosi per gli Slayer che non mollano per nulla anche nella successiva “Take Control”, diversamente “Vices” è pilotata dalla batteria di Paul Bostaph in un ritmo più lento ed allo stesso tempo pesante a cui risponde la voce violenta di Araya, ancora in forma, riluttante ad arrendersi all’impietoso incedere del tempo. Ben più riuscita e definita nelle melodie è la quarta traccia “Cast the First Stone”, brano che apre con un riff saturo e abrasivo che culmina in un breve virtuosismo solistico di Holt. Infatti quello che viene chiesto al nuovo chitarrista è proprio di inserirsi nella struttura del brano e deviarla per pochi secondi grazie alla magia della sua chitarra. 

La traccia successiva s’intitola “When The Stillness Comes” e ricorda “Spill the Blood” contenuta in South Of Heaven; qui la voce di Araya proviene dalle profondità della terra e viene introdotta dal classico, ma mai banale arpeggio seguito poi da riff detonante. Un muro di chitarre circonda la voce di Araya che alterna quiete a rabbia distorta.  
Una volta superata la prima parte del disco cerchiamo di comprendere come sono andate veramente le cose. La produzione su tutto. I suoni sono puliti e potenti. La produzione di Terry Date rende i brani vivi, dinamici ed è un piacere lasciarli fluire in cuffia e attraverso i watt delle casse del vostro hi-fi. E’ perfetta? Dipende. Se prendiamo in considerazione la decima traccia “Atrocity Vendor”, una bellissima partitura venata di punk nel riffing che era b-side del singolo rilasciato del 2010 per l’album World Painted Blood, confrontandole notiamo che la pulizia della versione del 2015 perde in durezza e risulta meno abrasiva, ora l’impatto è più vicino ad un thrash venato di punk. Se dovessi scegliere prediligerei quella del 2010, ma entrambe sono davvero ben fatte. Altro brano riuscito è la sucessiva “You Against You” che corre veloce e implacabile in territori puro stile Slayer.  Da segnalere tra i brani più riusciti anche “Chasing Death”, “Implode” e “Piano Wire” (traccia che porta anche la firma di Hanneman) che riescono ad entrare in circolo in maniera immediata e violenta. Ho trovato qualche debolezza nella troppo lineare e poco incisiva “Pride in Prejudice” e come accennavo non mi ha convinto nemmeno “Vices” per via di linee melodiche deboli. 

Non si può prescindere dal contesto e non si può però dimenticare il passato più recente. Gli Slayer hanno attraversato sei anni molto complicati e Replentess potrebbe essere semplicemente un nuovo inizio. La band si è trovata a sostituire due musicisti che erano in grado di fare la differenza e verso cui la maggior parte dei fans nutre ancora una profonda ammirazione. Le premesse per sbagliare c’erano tutte. In realtà il risultato è più che buono. Premetto che considero ancora oggi uno dei loro migliori ultimi album God Hates Us All per via di una varietà e di una profondità musicale che non riscontro nella loro ultima fatica. Infatti gli Slayer in Repentless diventano più lineari e di tanto in tanto affiorano rimandi più o meno espliciti al passato anche più remoto di Hell Awaits ed in qualche caso anche di South of Heaven. La produzione di Terry Date ha quindi un ruolo chiave perché deve essere in grado di far leva sull’impatto sonoro, sulla potenza in modo da compensare eventuali scelte minimaliste. Come detto risulta evidente da subito che i suoni sono curati, potenti e precisi. I dubbi poi gravitavano sui nuovi entrati: Gary Holt e Paul Bostaph. Il contributo del chitarrista degli Exodus, secondo quanto dichiarato da Araya, si limiterebbe agli assoli che a mio modo di vedere sono davvero incisivi e la loro brevità è funzionale alla struttura del brano. Possibile che Holt non abbia contribuito anche alla composizione dei brani? Può darsi, la mia sensazione è che in alcuni riffoni si nasconda la sua firma.Diversamente la batteria di Paul Bostaph, a mio modo di vedere, se la cava egregiamente nel mantenere un equilibrio non scontato tra la pesantezza delle origini e quella matrice hardcore punk che attraversa la discografia degli Slayer per riaffiorare di frequente in Repentless.  Una menzione particolare poi per Araya in grado di dare profondità alla musica con una prestazione convincente; infatti riesce a trovare le giuste misure in rapporto alla violenza dei suoi fraseggi vocali e al ritmo/melodia del brano, il suo è un ritorno alle prime decadi di vita degli Slayer

A mio modo di vedere ci troviamo davanti ad un disco più che buono, caratterizzato però da una certa prevedibilità in alcuni frangenti (compensata da altre cose positive come ad esempio la produzione  e da un’energia notevole) e da qualche piccolo passaggio a vuoto. Nel complesso un risultato insperato perché spesso seguendo le vicende degli ultimi anni, era facile immaginarsi una spugna gettata a terra dopo che l’ennesimo pugno del destino aveva fatto barcollare gli Slayer verso un probabile ko. Invece presto li troveremo in tour pronti a sudare e combattere come se fosse il primo round di un combattimento che supera ormai le tre decadi. Repentless. Senza pentirsi. 

 

MARCO GIONO

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