Recensione: Rising Vengeance

Di Daniele D'Adamo - 7 Aprile 2020 - 18:00

Spuntati dal nulla, i Nawabs Of Destruction, composti in realtà da due soli membri (Saad Anwar – voce, Taawkir Tajammul – tutti gli strumenti), con il loro primogenito “Rising Vengeance” dimostrano ancora una volta che i confini del metal non esistono più, nemmeno in quello estremo. La band proviene, infatti, dalle fertili pianure del Bangladesh, ove essa rappresenta certamente una rarità, desumibile anche dalla difficoltà di reperire in loco i componenti necessari per formare la canonica formazione a cinque.

I Nostri, comunque, non si sono curati di questo problema poiché il loro sound è in ogni caso pieno e carnoso, potente, robusto, spesso, per nulla imputabile, a naso, a una risicata coppia di musicisti. Evidentemente, gli indiani Demonic Resurrection devono in qualche modo aver fatto scuola, perlomeno da quelle parti, poiché non sono pochi i punti di contatto fra i due act. Punti di contatto che consistono più in qualcosa di indefinibile, un colore, un sapore, un odore, che, invece a concreti elementi di cucitura.

I Nawabs Of Destruction, seppur dotati al loro interno alcuni tratti somatici caratteristici dell’etnia di provenienza (udibili nella devastante ‘The Evil Within’), vivono di luce propria, sciorinando un melodic death metal per nulla elementare. Sia nell’aspetto tecnico, sia in quello artistico. Già l’opener-track, ‘Beginning of the End’, lascia intendere di avere a che fare con uno stile vario e articolato, comprensivo di tastiere e voci femminili come nella visionaria title-track.

Uno stile piuttosto definito in tutti i suoi aspetti che lo possano accomunare al moderno death metal. Voce più che adeguata allo scopo, che spazia dall’arso e roco growling alle clean vocals, passando pure per l’inhale – come nella dissonante ‘Reincarnation’ – drumming tentacolare, che non si spaventa certamente a valicare i pericolosi territori dei blast-beats. Il riffing è di pregevole livello, sia per l’esecuzione degli accordi, mai scontati, sia per quanto riguarda lo splendore di dorati ceselli armonici e assoli di sicura classe realizzativa. Ovviamente non manca una buona dose di energia da scaricare a terra (‘Sleep Paralysis’), che funge da cordone ombelicale a quello che è lo stile natio e cioè il death metal, come giova ripetere.

Ritmo incalzante, aggressivo, velocità sostenuta, lancinanti soli che tagliano a fette l’etere, rappresentano le radici di un sound che affondano in un retroterra esteso, posseduto da entrambi i musicisti, poiché si percepisce chiaramente che trattasi di un dato di fatto. Come si percepisce una naturale vocazione all’introspezione, all’approfondimento dei temi trattati, a una notevole dose di visionarietà, come del resto si è già notato in ‘Rising Vengeance’. Una visionarietà intrinseca al modo di vedere la musica che, in taluni momenti, li porta a scostarsi leggermente dal filo del discorso, divagando leggermente per ammirare immaginari scenari ricchi di sensazioni, di emozioni, di sentimenti. Un po’ come dev’essere stato il brainstorming di quando è nato il disegno di copertina, non a caso perfettamente attinente al contenuto.

“Rising Vengeance” è un lavoro che regala anche ottimi ritornelli, pieni, ricchi, possenti e melodici, come nella già menzionata ‘The Evil Within’, forse la più corretta rappresentazione dell’antitetica unione fra brutalità e delicatezza. Antitesi che si sviluppa praticamente in tutte le canzoni che compongono il il disco e che, almeno a parere di chi scrive, costituiscono il leitmotiv principale dell’LP.

Ma, soprattutto, “Rising Vengeance” è un’opera costruita con cuore, bravura, dedizione e tanta, tanta passione. Che si sente a pelle come un brivido freddo ma nello stesso tempo caldo, rinnovando l’ossimoro che regge il tutto.

Daniele “dani66” D’Adamo

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