Recensione: Running Games

Di Fabio Vellata - 13 Febbraio 2021 - 1:18
Running Games
80

Approfittando di un momento di pausa dai numerosi impegni artistici della band principale, Joel Hoekstra – ottimo chitarrista attualmente arruolato nei Whitesnake – propone all’uditorio di appassionati hard rock il secondo capitolo del proprio progetto solista marchiato con il beneaugurate numero “13”.

Sei anni di pausa dalla prima uscita: un’attesa lunga che, alla luce dei felici esiti di questo come-back si rivela comunque fruttuosa e foriera di soddisfazioni.
Line up invariata o quasi (Jeff Scott Soto non divide più il microfono con Russell Allen, ma viene “limitato” alle sole backing vocals), con Tony Franklin e Vinny Appice confermati al basso e batteria e Derek Sherinian impegnato a dispensare pennellate di colore con le tastiere.
Superband?
In effetti, qualcosa di molto simile, vista la line up di eminenze coinvolte. Un nucleo di musicisti da cui vien quasi naturale attendere e pretendere un’opera quanto meno notevole.

Detto fatto. Miscelando Whitesnake, Blue Murder, Thin Lizzy (e insomma, John Sykes parrebbe proprio essere una buona fonte d’ispirazione per mr. Hoekstra!), un po’ di class metal e spruzzate evanescenti dal sapore quasi prog, ecco pronto “Running Games”.
Un disco di qualità, che difficilmente potrà deludere gli amanti dell’hard rock tradizionale e metallizzato. Quello irrobustito da importanti sferzate di melodia seppure mai, in nessun caso piacione o divertito. Piuttosto, innervato da una formula risoluta di robusto class in cui dar sfogo a schitarrate tonanti ed alla voce sontuosa di Allen, vero dominatore della scena sin dai primi istanti del disco.
Non a caso, la sferragliante “Finish Line” – pezzo in equilibrio tra Snakes più ribelli e reminiscenze dell’indimenticabile Ronnie James Dio – è stata scelta quale singolo di presentazione di “Running Games”. Alquanto rappresentativa è, infatti, un buon sunto di quanto poi reperibile nel resto del cd: un concentrato di hard energico ed audace, in perenne combutta con l’heavy metal di scuola ottantiana.

Bello. Decisamente bello e godibile il risultato.
Ascoltare l’ugola di Allen è da sempre una soddisfazione per chiunque ami le voci melodiche ma dotate di un’anima di metallo, mentre il profilo strumentale tende ad essere identificato tra il sontuoso e l’eccellente. Ogni strumento contribuisce a rendere la struttura del brano ricca di sfumature, donandole spessore e profondità.
Come un dipinto in cui la pennellata è spessa, “materica” e corporea, le composizioni di Hoekstra offrono l’idea di un elaborato derivante da molteplici passaggi, in cui non si riconosce un semplice “hard rock” di maniera, leggero ed annacquato. Al contrario, l’idea è quella di un album solido, molto “meditato” e per nulla frutto d’improvvisazione, fatto di un rock ruggente che si prende molto sul serio ed ambisce non certo a divertire quanto a rivelarsi “incisivo”.

Non sono le atmosfere spensierate a rendersi protagoniste: esistono e talora si manifestano (il giro iniziale di “I’m Gonna Lose it” è, insieme, frizzante e gagliardo). È la asprezza del rock davvero “hard” che ha molto spesso il sopravvento, lanciato da un rifferama arrembante di cui Hoekstra – novello John Sykes – è fiero interprete. “Hard to Say Goodbye”, “Heart Attack“, “Fantasy“, “Take What’s Mine“, “Cried Enough for Me“: c’è parecchio materiale per cui ringraziare gli dei del rock duro, ugualmente magnanimi negli episodi più raffinati e fascinosi. Le “charmant” “Lonely Days“, “How do You”, “Reach the Sky” e “Running Games” (la title track), nei riflessi cromati ed avvolgenti richiamano alla memoria suggestioni ed eleganze affini a certe cose care a David Coverdale, pigmalione e main sponsor di Hoekstra.

Gagliardo, ruvido ma ugualmente elegante. Ben strutturato, solido, suonato in modo impeccabile da musicisti di altissimo livello.
Un disco consigliato senza dubbio che, per qualità e valore, va a doppiare gli esiti molto convincenti dell’altrettanto valido album d’esordio datato 2015.

Hard rock suonato con piglio e sapienza da chi, del genere, ha saputo farne un’arte…

 

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