Recensione: Sail Away

Di Stefano Burini - 6 Gennaio 2012 - 0:00
Sail Away
Band: Great White
Etichetta:
Genere:
Anno: 1994
Nazione:
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80

L’avremo ripetuto milioni di volte e credo che non ci stancheremo facilmente di dirlo: i Great White sono tra le maggiori rock band americane di tutti i tempi, non tanto per il riscontro commerciale (comunque non disprezzabile negli anni di maggior fama), né per aver fatto dell’innovazione la loro bandiera (la musica di Russell, Kendall e compagnia è semplicemente classic yankee rock, scevro da particolari contaminazioni e “salti nel buio”), quanto piuttosto per l’oggettiva qualità e l’ampio spettro della proposta.

I GW non sono, infatti, mai stati (solo) una hard rock band, ma hanno anzi colorato ogni singolo album con umori provenienti talvolta dall’hair metal e dall’AOR (soprattutto agli inizi e nel periodo di maggior successo), altre volte in maniera più marcata dal blues e dal rock ‘n’ roll, e, pur avendo scritto canzoni d’amore (alcune splendide peraltro), e bazzicato lidi affini all’hair/glam/class metal, non hanno mai aderito in toto a nessuna moda o corrente, hanno sempre fatto la loro musica, ora più heavy, ora più rilassata, in base ai periodi e alle vicissitudini personali dei vari membri.

Li avevamo lasciati nel 1992 con “Psycho City”, a detta di chi scrive il loro apice compositivo, eppure, nel contempo, un lavoro che non aveva ottenuto i riscontri (di pubblico, forse più che di critica) dei due o tre immediati predecessori, e li abbiamo ritrovati, nel 1994, con “Sail Away” probabilmente il loro disco in assoluto meno orientato all’hard ‘n’ heavy e sicuramente il più malinconico in quanto ad atmosfere.

L’apertura è affidata ad un’inusuale (per i GW) intro di pianoforte che lascia presto la scena alle meste trame di “Mother’s Eyes”, palesando fin dal principio che chi cercava le chitarre arrembanti di “Shot in The Dark” e “Once Bitten” o il flavour hard blues di Hooked” e di “Psycho City” rimarrà probabilmente deluso: l’atmosfera che pervade l’intero disco è, infatti, con pochissime eccezioni, fortemente intimista e improntata su semiballate a mezza via tra rock e blues, un po’, se vogliamo, alla maniera dei Whitesnake di “Restless Heart”.

Va da sé che, ancor più che in passato, il ruolo di assoluto protagonista è affidato alla sempre splendida voce di Jack Russell, autore di un’altra serie di prestazioni di grande sentimento. Testimonianza ne siano “Cryin’” ed “Alone” due ballate d’eccezione in cui anche i testi, in virtù di un’interpretazione molto intensa, lasciano il segno molto più che nella media delle canzoni di genere. E forse è proprio qui, più evidente che mai, che si riconosce quella che è stata la vera “arma in più” dei GW rispetto a molti colleghi: la capacità di trasmettere sentimenti ed emozioni in maniera viscerale e per nulla artefatta. Impossibile non provare alcun sussulto nel sentire Russell intonare “And I know, I know/I can tell you pretty darlin’/I don’t want to be alone/I know, I know/I know the sky is cryin’/And I don’t want to be alone” con tutta la passione e il feeling che ne contraddistinguono il cantato.

Un piccolo spiraglio di luce si intravede grazie alla più scanzonata “Momma Don’t Stop”, trascinante rock ‘n’ roll alla Great White, come ne avevamo già sentiti anche nei vecchi lavori, basti pensare a “Call It Rock ‘n’ Roll” da “Hooked”, mentre “Alright” è di nuovo una ballata elettroacustica, sulle tracce di “Cryin’” e di “Alone”, altrettanto ispirata e riuscita.

La title track presenta delle soluzioni melodiche e di arrangiamento piuttosto atipiche, dalle percussioni tribaleggianti poste ad accompagnare le strofe, fino all’utilizzo dei cori e delle chitarre; “Gone With The Wind” è un blues da urlo, patinato e con un arrangiamento un po’ alla Gary Moore, da ricordare per l’ennesima prestazione di rilievo di Russell al microfono, il bell’assolo elettrico da parte di Mark Kendall e l’appropriata intrusione di un sassofono, suonato nientemeno che da Clarence Clemons (E-Street Band), a conferire ulteriore calore al componimento.

La conclusione che probabilmente non ti aspetti per un disco di questo tipo è affidata a”Livin’ In The U.S.A.”, uno spensierato rock ‘n roll scandito da pianoforte battente e da pochi interventi di chitarra e ad “If A Ever Saw A Good Thing” una delicata cover di Tony Joe White, cantautore swamp rock americano, di nuovo affidata per intero a voce, chitarra acustica e sax.

Qui termina la recensione degli inediti, ma l’edizione originale dell’album comprende anche un bonus disc denominato “Live At Anaheim” in cui tornano prepotentemente alla ribalta i Great White più elettrici di “Once Bitten”, “…Twice Shy”, “Hooked” e “Psycho City”.

Difficile dire cosa si distingua dal resto, siamo al cospetto di una band che sapeva e sa tuttora il fatto suo, l’esecuzione è di alto livello, sia dal punto di vista strumentale che canoro e la bontà delle canzoni non è una novità per chi li segue da tempo immemore. “All Over Now”, viene riproposta in una live version esplosiva, assolutamente da non perdere, la cover “Babe I’m Gonna Leave You” lascia intravedere tutta la passione e l’ammirazione degli Squali Bianchi per i Led Zeppelin e in particolare le grandi doti interpretative di un Russell più plantiano che mai. “Rock Me” è un tripudio di armoniche, assoli fiume e atmosfere hard blues da brividi, ancor meglio che da studio e  ancora, la briosa “Once Bitten, Twice Shy” coinvolge e diverte con il suo retrogusto hard ‘n’ roll..

Inutile dilungarsi si tratta di ottime testimonianze live di una band all’apice della propria forma e della propria ispirazione, per gli appassionati un ulteriore motivo per non trascurare un capitolo “minore” nella discografia dei rockers losangelini, che tuttavia potrebbe risultare una gradita conferma per coloro che apprezzano i Great White e in generale l’hard blues più intimista.

Nota a margine per la copertina. Dopo un decennio che ha visto i Great White proporre artwork tipicamente classy (i fulmini su sfondo viola/nero di “Shot In The Dark”), hair/glam (le ragazze insidiate dalle pinne di squalo di “Once Bitten” e di “…Twice Shy”) e blues/roots (l’insegna  dell’Old Rose Motel di “Psycho City”), decidono di scostarsi dalla loro tradizione (esattamente come per i contenuti, come già affermato) proponendo come front cover un dipinto di Théodore Géricault, “Le Radeau de la Méduse” (“La Zattera della Medusa”) che richiama in maniera esplicita la metafora della navigazione suggerita dal titolo dell’album.

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Tracklist:

Disc 1

01 A Short Overture
02 Mother’s Eyes
03 Cryin’
04 Momma Don’t Stop
05 Alone
06 All Right
07 Sail Away
08 Gone With The Wind
09 Livin’ In The U.S.A.
10 if I Ever Saw A Good Thing (Tony Joe White cover)

Disc 2 (Anaheim Live)

01 Call It Rock ‘n’ Roll (Hooked)
02 All Over Now (Once Bitten)
03 Love Is A Lie (Psycho City)
04 Old Rose Motel (Psycho City)
05 Babe (I’m Gonna Leave You) (Led Zeppelin Cover)
06 Rock me (Once Bitten)
07 Once Bitten, Twice Shy (…Twice Shy)

Line Up:

Jack Russell – Voce
Mark Kendall – Chitarra, backing vocals
Micheal Lardie – Chitarra, tastiere, backing vocals
Teddy Cook – Basso, chitarra, cori
Audie Desbrow – Batteria

 

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