Recensione: Secret Garden

Di Roberto Gelmi - 15 Gennaio 2015 - 12:00
Secret Garden
Band: Angra
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2015
Nazione:
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70

Tra i gruppi che ogni amante del buon metal ha nel pantheon del proprio cuore, gli Angra si ritagliano il giusto spazio, complici i primi due album capolavoro, composti negli anni Novanta con Andre Matos al microfono. La miglior band metal brasiliana, fresca di live dvd celebrativo per i vent’anni in attività, è passata attraverso diversi cambi di line-up e rischi di scioglimento; superate le difficoltà, dopo cinquanta mesi dal precedente Aqua, esce il loro ottavo studio album a inaugurare un nuovo anno solare.
Questo inizio di 2015 si presenta, dunque, allettante per ogni patito di power metal, considerando in arrivo anche il decimo full-length dei Blind Guardian. Non cito a caso i bardi di Krefeld: le band suddette rappresentano nel bene e nel male due diverse evoluzioni del sottogenere metal nato con gli Helloween (ormai un quarto di secolo fa) e che attualmente non gode della stessa vitalità prepotente vantata nei 90s. I Blind Guardian hanno puntato sul rincalzo sinfonico; i brasiliani, ormai capeggiati solo dai chitarristi Loureiro e Bittencourt, sul ritorno alle origini (da Rebirth in poi), con la parziale eccezione di Aurora Consurgens.

Nel caso di Secret Garden il percorso degli Angra punta timidamente verso qualche innovazione in più, ma fattore decisivo resta l’assenza del vero erede di Edu Falaschi. I dieci brani in scaletta, infatti, prevedono quattro voci differenti (oltre a Lione, le ospiti Simone Simons, Doro Pesch, lo stesso Bittencourt) con esiti altalenanti e assenza di coesione complessiva. Insomma, non siamo, purtroppo, di fronte a un nuovo Temple of Shadows, dove, invece, tutti gli special guest hanno regalato emozioni.
Il nuovo platter circola nel web già a fine 2014, al primo ascolto risulta spiazzante e non convince. Dopo un approfondimento più attento, tuttavia, il disco comincia a crescere, per poi essere finalmente inquadrabile e giudicabile senza ubbie di sorta. Volendo semplificare, possiamo dividerlo in quattro parti: la prime tre canzoni, pezzi con un loro quid; le due tracce successive, punto debole del full-length; l’isola felice della title-track, che resta discorso a se stante; le ultime quattro composizioni, tra luci e ombre..

Detto questo della scaletta, veniamo a un doveroso track-by-track. L’opener, primo brano reso disponibile a dicembre dalla band, è heavy e articolato al contempo: tastiere oscure, ritmiche à la Masterplan e un incredibile e giovanissimo Bruno Valverde a stupire con finezze e precisione dietro le pelli (classe 1990, il ragazzo è poco più vecchio dell’altro fenomeno precoce brasiliano Eloy Casagrande, che ha stupito nel solista Mentalize di Andre Matos). Niente sbavature per Lione, che canta in modo cristallino, ma non tenta di inserirsi negli schemi della band verde-oro. Da segnalare il crescendo in doppia casa a metà brano, cui segue un highlight di Andreoli in tapping e uno pseudo-fado che richiama certe atmosfere di Rebirth. Ottima la voglia di stupire messa in campo, con venature progressive, senza contare che si soprassiede al solito breve intro strumentale e il minutaggio va oltre i cinque minuti canonici.
Lacerti in latino per i secondi introduttivi di “Black Hearted Soul”, brano speed metal con doppia cassa e main-riff allegro. A metà del terzo minuto spicca un break cadenzato e seguente sezione in tremolo per la gioia di tutti i power-fan incalliti. Uno dei momenti memorabili del platter, vuoi per la tecnica messa in campo, vuoi per la bellezza intrinseca del minuto e mezzo strumentale in questione. L’apporto di Eduardo Espasande è tra i valori aggiunti di Secret Garden: le sue percussioni etniche indiavolate in apertura di “Final Light” vanno magicamente d’accordo con un Lione ispiratissimo, sorretto da ritmiche possenti. Un pezzo ruffiano, heavy, che nell’economia del platter non stona: permette di rallentare un po’ i ritmi e uscire dal cul-de-sac del power sinonimo di mera doppia cassa.
Il trend positivo, però, s’interrompe, come anticipato, con la successiva accoppiata “Storm of Emotions”-“Violet Sky”. Sorta di ballad la prima, con refrain catartico e strofe ammiccanti, ma complessivamente debole per inventiva; troppo spiazzante, non solo perché djent-oriented e senza Lione (ma con una strofa in italiano), la seconda, che forse potrebbe figurare in un album dei nuovi Stratovarius. Meglio il “violetto” di casa Vision Divine.

Per fortuna ci pensa l’ugola calda e vellutata di Simone Simons a risollevare le sorti dell’album, che tocca un momento di grandiosità inaspettata nella title-track, il cui unico difetto consiste nell’essere un pezzo pensato su misura esclusivamente per la cantante nederlandese: ascoltando la traccia si fatica a ricordare che ci troviamo in album targato Angra.
Gli ultimi quattro brani in scaletta regalano un paio di sorprese, ma si poteva fare decisamente meglio. La prima è la proggish “Upper Levels”, con basso e percussioni “ballerine” in apertura e minutaggio variegato. Lungo sei minuti e mezzo si alternano atmosfere lievi e rocciose, mentre a metà del brano Louireiro sembra fare il verso ad Allan Holdsworth (il chitarrista brasiliano tiene pur sempre un piede nel proprio “Universo Inverso“). Uno delle composizioni più sfaccettate mai concepiti dai brasiliani, ma i controtempi insistiti di Valverde appesantiscono troppo la struttura del pezzo.
Seconda sorpresa non è, invece, il cameo della storica valchiria Doro Pesch in “Crushing Room”, brano senza Lione e senza mordente (se non nell’ennesimo buon assolo), bensì “Perfect Symmetry”, canzone speed metal, che mostra fugacemente, come per miracolo, lo splendore passato della dea del fuoco. Doppia cassa, linee vocali su registri alti e un ritornello cha scatenerà entusiasmi in sede live. Un brano simile farebbe la gioia di Stratovarius, Sonata Arctica, Helloween, Nocturnal Rites e famiglia. In definitiva l’unico vero pezzo subito riconducibile al landmark dei brasiliani, momento piccolo-sinfonico incluso. Senza una simile killer song la seconda parte dell’album sarebbe stata poca cosa.
Si poteva chiudere in bellezza, invece l’ultimo brano in scaletta è mesto, non per questo riuscito in toto. “Silent Call” è una ballad con pianoforte, hammond e chitarre acustiche: clima accogliente, quasi natalizio, ma senza Lione il comparto vocale è chiaramente esile.

Dopo ripetuti ascolti, Secret Garden genera sentimenti contrastanti nel fan di vecchia data. Gli Angra provano a ritrovare se stessi, puntando sul binomio notum-novum, ma con esiti incerti. Il lato power ne esce ridimensionato, il futuro vocale della band insondabile. Il carattere mistico del combo brasiliano, che ha avuto il suo acme in Holy Land, rispunta, inoltre, solo nell’artwork di Rodrigo Bastos Didier (ingannevole nelle sue promesse edeniche) e nell’intro di “Black Hearted Soul”. Da un gruppo storico che ha tanto elettrizzato in passato ci si aspetta sempre un capolavoro, tuttavia da Temple of Shadows in avanti la retta via pare ancora in gran aprte smarrita.
Punti a favore del platter sono la prova alle pelli di Valverde (voglia di strafare inclusa), l’attenzione alle percussioni (passi la ricerca stereotipata dell’esotismo), la produzione e alcuni assoli gustosi (ma quello di “Z.I.T.O.” resta irraggiungibile). Punti deboli, il carattere simil patchwork dell’album (vista l’eterogeneità delle voci e la scaletta “poco ordinata”) l’assenza di una grande ballad e il vero passo falso, a nome “Violet Sky”.

Va dato atto agli Angra di essere rinati più volte, come nel caso dei padri putativi Helloween e dei cugini Stratovarius; ora, tuttavia, sorge naturale la domanda “Quante reincarnazioni ancora, prima dell’epilogo finale?”. Spiace dirlo, ma l’ultimo guizzo i brasiliani l’hanno mostrato nel 2004: a meno di trovare un nuovo frontman dall’ugola impareggiabile, il futuro degli Angra resta vago e preoccupante.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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