Recensione: Shades Of God

Di Andrea Poletti - 14 Luglio 2016 - 3:33
Shades of God
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 1992
Nazione:
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82

“Le ombre infestano la notte

Perdonami mentre muoio”

Il lato oscuro del nostro io è quello più persistente ed inattaccabile, non conosciamo gioia senza dolore né la felicità senza sofferenza. Il pendolo di Schöpenauer ci insegna come una stabilità emotiva non possa esistere, siamo costantemente alla ricerca dell’ulteriore step che ci doni qualcosa in più rispetto alle lacune di ciò che siamo stati in grado di ottenere. Le persone sempre felici non esistono, se appaiono come tali mentono spudoratamente; ti ritieni soddisfatto della tua intera vita, tu? Riflettici e capirai come l’arte nasce dal dolore, dall’oscuro, dall’ansia e dall’angoscia del non essere e/o avere. La musica dunque in quanto arte prende la sua spinta più altisonante ed introspettiva con le lacrime, dentro quel mondo sono nati i Paradise Lost e giocano a scacchi con le tue fragilità, sempre se si è grado di percepirle. “Le sfumature di Dio”, quella presenza immateriale che ti fa credere di essere salvo e in attesa del perdono, che è tutto un grande piano perché Egli vuole così; a nostro malgrado solo le ombre esistono, solo buio anche alla luce del sole. Solo perdizione. La band di Halifax gioca su questo concetto col terzo album ufficiale, il famoso terzo passo che dovrebbe fornire la svolta ad uno stile consolidato nei primi traguardi rendendolo personale, come da tradizione il bersaglio è centrato ed involontariamente diventa uno dei cardini della loro lunga carriera. “Shades of God” può essere considerato alla lunga uno di quei classici album di transizione; arriva subito dopo il magistrale “Gothic” per protrarsi verso il futuro, aprendo le porte alla famosa doppietta “Icon” e “Draconian Times” quale ipotetico zenit compositivo della grande discografia degli Inglesi prima della parentesi electro-pop. 

Indubbiamente questo non è un platter che ha cambiato il corso della storia, non ha inciso come altre creazioni del genere, ma è inevitabilmente di fondamentale importanza per riuscire a comprendere lo sviluppo del death/doom degli anni 90. “Shades of God” risulta quasi impossibile da scindere per essere raccontato traccia per traccia, tutto è parte di un complesso ed architettonico masterplan che trova la sua forza nell’unione; è si definibile ancora come death anche se solo in parte, sono le sfumature al suo interno che amplificano lo spettro visivo dei nostri rispetto ai due album precedenti rendendo unico e inimitabile. All’interno di ogni brano riusciamo a ritrovare quella delusione verso la società che difficilmente è riscontrabile in altre band, una candela morente nel buio della mente dell’uomo moderno. I Paradise Lost sono maestri nel creare infrastrutture sonore di difficile comprensione, non è immediato come potremmo pensare; l’utilizzo di un più vasto range canoro da parte di Holmes rispetto al passato, l’apertura a melodie leggermente meno cupe ma di forte impatto e un produzione organica e vera porta l’autunno dentro i nostri cuori minuto dopo minuto. 

“All the more, you feed off my rejection

All the more, I tear your soul in two”

Se la tracklist in apertura ci propone una doppietta esaltate formata da “Mortals Watch The Days” e “Crying For Eternity”, che ripercorre i tratti distintivi del passato con una notevole maturazione, già con le le successive traccie vediamo in via definitiva quelle saranno le future dinamiche sonore dei Paradise Lost. “Daylight Torn” e “Pity The Sadness” offrono una progressione a tempi più contorti e machiavellici, idee prima d’oggi mai sviluppate che si innestano prepotentemente nel tappeto sonoro; cori e melodie con stacchi altisonanti, combinati a momenti di dolere acuto, ci indeboliscono senza rendercene conto. Cosa sta accadendo? Sto perdendo conoscenza e non me ne accorgo? Certamente non tutti i passaggi sono magistrali, un leggera flessione nella seconda parte è comprensibile, flesso dovuto più che altro a due brani non realizzati al meglio; se “No Forgivness” riesce a salvarsi, essendo il primo e proprio lento di oltre sette minuti (troppi?) dell’intero album, probabilmente “Your Hand in Mine” poteva essere sviluppata al meglio attraverso un cantato in pulito non perfetto e ad atmosfere più doom-gothic che death leggeremente fuori contesto. Dettagli ad ogni modo. Il finale che non ti aspetti, quando credi tutto il meglio sia già stato donato, la tracklist ha un sobbalzo senza precedenti ed arrivano quelle tre parole che recitano “As I Die” e la tua giornata cambia, il tuo occhio verso il mondo si amplifica, le forze si frantumano, i sogni corrono via lontani e non riesci a descrivere nulla se non il punto bianco in fondo al tunnel della vita. “As I Die” è unica in quanto tale e la raccontiamo con una parte del testo, altro sarebbe superfluo.

“My soul it has no price

Total release is out of harm’s way

Until I can decide

You punish me, can’t you see, I’m not real

Tears are flowing free, passing by, as I die

Uscito il 14 luglio, in piena estate questo è il temporale che ti cambia la giornata durante la luce giornaliera, “Shades of God” è un monumento al decadimento, il primo vero passo verso quella band che da questo momento sarebbe diventata una delle icone del genere, dei maestri. Descriverlo in maniera tecnica non ha senso, qui si vivono emozioni, frustrazioni e gioie del vuoto catartico; ad ogni ascolto diventiamo delle marionette che giocano su fili molto sottili con tempo che rimane da vivere. Come già detto è da qui che i Paradise Lost spiegheranno le ali per volare meritatamente lontani, nella sua acerba complessità c’è tanto, tantissimo dentro quest’album e non ci rimane altro che applaudire ringraziando il destino che ci ha portato in dono questo regalo. Chapeau.

Io penso che Dio nel creare l’uomo sopravvalutò alquanto la sua abilità.

(Oscar Wilde)

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