Recensione: Shock To The System

Di Marco Tripodi - 12 Novembre 2021 - 8:00
Shock To The System
Band: Tower
Etichetta: Cruz del Sur
Genere: Heavy 
Anno: 2021
Nazione:
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65

I newyorkesi Tower, da non confondere con almeno una decina di altre band con lo stesso monicker non proprio originalissimo, li conosco sin dall’inizio della loro carriera discografica. Sono rimasto folgorato dal loro debut omonimo (2016) e dal successivo Ep “Tomorrow And Yesterday” (2019). Il quintetto è assegnabile abbastanza agilmente al cosiddetto filone della NWOTHM, con influenze piuttosto nette e a loro modo sorprendenti. Per avere un’idea di quale possa essere il sound della Torre occorre mischiare un po’ di Omen, i Manowar di “Battle Hymns“, i primissimi Virgin Steele (limitatamente alla prima metà degli anni ’80), senza dimenticare un irrinunciabile spruzzata di proto Maiden, e suppergiù ci si avvicina alle atmosfere ed alle intenzioni del gruppo guidato dalla volitiva e carismatica Sarabeth Eve Linden. Sarabeth è un personaggio unico che inevitabilmente finisce col catalizzare su di sé le attenzioni, sia per l’incredibile potenza vocale e la furia interpretativa, sia per il modo di porsi, decisamente prepotente e virile nonostante appartenga al cosiddetto “gentil” sesso.

Aspettavo dunque con molta curiosità il nuovo album addirittura su Cruz Del Sur, pregustando una nuova ondata di canzoni fragorose e schiacciasassi, alla maniera della band. Non è andata del tutto così, anche se non posso parlare di vera e propria delusione; diciamo che lo “shock” al sistema è minore di quanto sperassi. Il disco si rivela un contenitore di brani tenaci e solidi ma non tutti allo stesso livello e, soprattutto, non tutti al livello della passata produzione dei Tower (si ascoltino a titolo di esempio pezzi come “I’ve Never Been More Alive” o “Run For My Life” per inquadrare il potenziale deflagrante che il quintetto è in grado di esprimere). “Blood Moon” – posta in apertura – “Lay Down The Law“, “In Dreams” e “Powder Keg” sono molto buone, in particolare le prime due, davvero esplosive, una degna proiezione della Torre che svetta stentorea sui cieli di New York.  Si tratta dei momenti più prossimi ai Tower che ho conosciuto sin qui, pezzi travolgenti ed arrembanti, decisamente “alla loro maniera”. Che la personalità non difetti al gruppo è evidente anche dalla scaletta, a seguire “Blood Moon” c’è “Prince Of Darkness“, che rallenta vistosamente il ritmo, quasi ad echeggiare certi Manowar periodo “Into Glory Ride“, incuranti di deludere chi li voleva sempre e soltanto col motore a palla. Poi arriva addirittura una strumentale di poco meno di 3 minuti (“Metatron“), scelta davvero bizzarra, vuoi per il posizionamento, vuoi per la sua brevità, vuoi perché una strumentale avendo a disposizione un’ugola come quella della Linden (da sfruttare fino alla saturazione) è come buttare via minutaggio prezioso, ma soprattutto vuoi perché il pezzo di per sé non è un granché. Lo avrei potuto capire come congedo, come outro finale, ma messo così, dopo appena 7 minuti di ostilità….

Quindi si riparte con “Running Out Of Time“, carina, tosta, non dico di no, tuttavia senza il guizzo che i Tower sanno infondere al metal quando ci mettono testa e cuore. Lo stesso dicasi per “Hired Gun” e “On The Line“. “The Black Rose” (uno dei due singoli assieme a “Blood Moon“) si situa un po’ a metà strada tra queste due polarità che compongono l’album. Nei momenti più “ordinari” i Tower sembrano osare meno, si limitano al compitino di aderire pedissequamente all’etichetta di band NWOTHM, con tutti i crismi ed i cliché del caso, finendo col confondersi ed annacquarsi nel mare magno dei “giovani/vecchi” che oggi cercano di ripetere le sonorità dei Maestri del Metallo d’antan. Di contro, quando la band spinge sul pedale della tracotanza e del testosterone, anche a costo di sconfinare nel pacchiano, si raggiunge il climax della più genuina, autentica e mordace proposta made in Tower. Non si tratta di una band da mezze misure, che può accontentarsi di suonare secondo canone, i Tower hanno carattere e temperamento da vendere e la loro scommessa è metterlo in evidenza quanto più possibile. Del resto, se pensiamo ai migliori Manowar o ai Virgin Steele, quanto erano kitsch nel momento di loro maggior fulgore? La performance di Sarabeth Linden è di assoluto valore, sempre e comunque, anche quando il suo essere ciliegina sulla torta ha a che fare con una dolce meno squisito del solito. Pure l’artwork scelto dai nostri puzza smaccatamente di vecchio (sia detto in senso affettuoso) ed il marchio Cruz Del Sur aiuta la band a migliorare notevolmente le acerbità e le incertezze della propria (auto)produzione. In definitiva, ascoltare i Tower rimane un piacere ma, date le premesse, era anche lecito aspettarsi un album assai più che gradevole, bensì eccellente. Sono io che li ho sopravvalutati e questa tutto sommato è la loro reale dimensione, oppure la band può effettivamente fare di più e di meglio? Lo scoprirò – immagino – al prossimo capitolo discografico.


Marco Tripodi

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