Recensione: Skeletá

I Ghost sono nati come un culto. Fin da quando James Hetfield dei Metallica ne ha riverberato il nome indossando pubblicamente la maglietta e sponsorizzandoli in pompa magna in occasione del “Orion Music + More” festival nel 2012, da band pressoché anonima sono diventati vere leggende del rock contemporaneo. Supportati anche da uno stile liturgico, a mo’ di cardinali e papi dell’inferno, con riff ‘sabbathiani‘, ma più puliti e melodici e un’aria da pomposa carica tutelare, la band, nata dal carismatico frontman senza volto (al tempo Papa Emeritus), si è ritrovata proiettata da semplice opener band ad headliner nei più grandi festival internazionali.
Il loro debutto, “Opus Eponymous” (2010), era un giocattolo maledetto: produzione lo-fi, melodie retrò a richiamare quel metal/rock di inizio anni Ottanta e un immaginario che pescava dal filone horror anni ’70. Bisogna ammettere che quell’esordio era fresco, sorprendente, quasi naïf.
Poi è arrivato “Infestissumam” (2013), finemente barocco e già più pop, più teatrale: un heavy metal zuccherato da pizzichi di ABBA, Queen e Blue Öyster Cult. Ma il tutto ancora funzionava.
Con “Meliora“, però, Tobias Forge (ormai rivelatosi demiurgo del progetto…) ha toccato l’apice: un album compatto, oscuro, orecchiabile. Un tiro che riassumeva perfettamente, con grande taglio heavy/rock e un groove perfettamente calato nel tono bilanciato degli ingredienti della band, la filosofia dei Ghost stessi, rendendo anche la parte estetica un valore aggiunto. Pezzi come “He Is” e “Cirice” erano e sono, due capolavori che rappresentano la potenza compositiva nonché l’attitudine della band di Linköping. Lì i Ghost erano ancora l’anomalia più interessante nell’ormai super-variegato panorama metal contemporaneo: catchy, ma con una marcata identità. E da lì in poi… il calcolo perfetto di cosa può vendere di più e, a parer di chi scrive, la cessione dei diritti dell’anima al music business più sfacciato e traditore.
“Prequelle” (2018) e “Impera” (2022) sono due dischi che flirtano con l’arena rock e il pop radiofonico, con momenti riusciti, nulla da dire, ma con un crescente sentore di confezione: tutto ben prodotto, ben pensato, ben calcolato. Una continuità pomposa da sottofondo per un panino al McDonald’s… fino al nuovo capitolo, che sembra più che altro una raccolta di jingle infernali per la radio svedese più popolare. Un piccolo sussulto di qualità, coerente e ben interpretata con l’EP di cover del 2023 “Phantomime”, la band lo ha dato e una fiammella s’era riaccesa.
C’è qualcosa che pulsi di attitudine metal o rock nel nuovo full-length? Diciamo fin da subito che non c’è cattiveria, non c’è tensione, non c’è più nemmeno quel flavour catchy così coinvolgente e iniettato di groove che palpitava nel cuore di brani anche più recenti della loro discografia. “Skeletá” è un disco gradevole, nulla da dire, soprattutto se lo ascolti mentre fai la spesa o mentre aspetti il dentista. Le melodie sono carine, certo, ma sembrano uscite da un algoritmo per la “melodia catchy media”: tutto è pensato per piacere, per non disturbare, per allargare il pubblico.
“Cenotaph” è forse l’unico brano che richiama certe sensazioni, quei tratti di personalità e attitudine che tanto li avevano incanalati, con velocità, verso certi livelli di apprezzamento nel mondo della “musica che ha un senso”. A seguire due pezzi che si attestano dignitosi, a voler proprio impegnarsi: “Lachryma” e “Umbrea“. Il resto è davvero incostante e dove c’era un bel tiro ritmico ora c’è un tamburellio da majorette, perfetto per l’apertura del prossimo super-bowl, eccezion fatta per l’estetica che, se il business garantirà ulteriori cachet, verrà anch’essa messa in discussione. Statene certi.
Non vogliamo assolutamente affermare che il disco non suoni bene. Anzi, ora tutto funziona benissimo. La paghetta in banca a fine mese, probabilmente già di per sé molto alta, altro non può fare che alzarsi ulteriormente, una volta che, grazie ad abilità esecutive da musicisti pari a quelle di lettura del marketing contemporaneo, frontman e compagni hanno saputo toccare l’easy listening della maggior parte del popolo del tipo: “Che musica ti appassione?”. Risposta: “ascolto un po’ di tutto”. Ecco, “Skeletá” rientra in quel po’ di tutto, compresa la mentalità tipica di chi considera ‘quel po’ di tutto’ sufficiente a soddisfarne l’amore per la musica. D’altronde, con una produzione stellare e una cura estetica di livello, l’obiettivo si raggiunge anche più velocemente.
Il risultato? Un album completamente privo di mordente, senza vere impennate artistiche. Le chitarre sono lì, ma stanno buone buone. La voce è sempre impeccabile, ma non emoziona più. L’oscurità è ridotta a un cosplay simpatico. Il disco è godibile a livello radiofonico, ma perde per strada quella sottile follia immaginifica che rendeva i Ghost speciali e che li portava a ricercare, attraverso un songwriting esclusivo, un’identità che avrebbe potuto innalzarli a precursori e rappresentanti di un nuovo modo di intendere l’heavy metal. Un metal che, pur pescando da molte ispirazioni del passato, sia rock/metal che pop, magari proprio svedese, riusciva a trasformarle in qualcosa di unico.
Insomma: da culto… a culto del consenso, il passo è stato breve, ma calcolato al millimetro. Tobias Forge, da profeta mascherato a C.E.O. dell’entertainment pop rock. Mi perdonino i veri rocker per l’associazione tra Ghost e il termine metal/rock. Io non l’ho apprezzato. Spero altresì che siano in molti a non vederla come me perché, per quanto mi riguarda, significherebbe che sto ancora dalla parte della musica che, per me, conta. Oltretutto, a favore del business targato Ghost, spero che molti amanti della musica riescano ancora ad apprezzarli, anche perché così qualcuno comprerà le versioni in vinile, cassetta o CD previste e non si soffermerà al solo ascolto digitale su YouTube/Spotify con pubblicità e a bassa risoluzione.