Recensione: Strapping Young Lad

Di Alberto Fittarelli - 6 Febbraio 2003 - 0:00
Strapping Young Lad
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Anno: 2003
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90

Ed eccolo, finalmente, il ritorno sulle scene della band principale di quel folle di Devin Townsend, gli Strapping Young Lad: erano addirittura 6 anni che non si facevano vivi, escludendo l’ottimo live No sleep ‘till bedtime; dai tempi di quel capolavoro inimitabile che era risultato essere il precedente City. Ora con questo nuovo album la band segna una nuova, quasi completa inversione di rotta, lasciandomi un’altra volta sconcertato: se infatti il predecessore giocava la sua genialità su melodie bellissime, incastonate in un tessuto sonoro ipercompresso, variegato e spesso molto violento, questo disco autointitolato nasce invece dalla commistione pura e semplice di elementi tipici del metal estremo, su cui si staglia la solita versatilissima voce di Devin e qualche inserto di tastiera, comunque secondario.

Ce ne accorgiamo a partire dall’intro, quella Dire che ci introduce subito alla componente sinfonica degli Strapping: corale e maestosa, risulta però ingannevole nell’annunciare le coordinate su cui si muoverà il disco.A seguire infatti vi è la prima mazzata dell’album, Consequence, che ci spiazza raccogliendo quanto di più violento composto ultimamente nel thrash metal, miscelandolo a parti estratte direttamente dal black metal più moderno (sentite la voce di Devin e certi riff, per credere) e creando così un ibrido che sembra però funzionare più che bene, anche nel suo ricollegarsi alla melodia dell’intro. Ma è la successiva Relentless che alza in modo deciso le quotazioni del disco: un pezzo realmente trascinante, costruito su riff di prima qualità e sul grande lavoro di Gene Hoglan alla batteria; a volte sembra addirittura di avvertire echi Morbid Angel per quanto riguarda il lavoro di chitarra, stemperati da una delle linee melodiche più azzeccate dell’intero album. Qui la sensazione è però che la composizione sia stata incompleta, ed il pezzo sembra terminare troppo in fretta: peccato.

Anche perchè la quarta Rape Song non è certo quello che può essere definito un capolavoro, con ritmiche spezzettate e poco coinvolgenti, in cui si sente risuonare qualcosa dell’industrial alla Ministry. Trascurabilissima, scorre via senza lasciare alcun segno e ci porta ad Aftermath, canzone in cui emerge la parte più genuinamente thrash degli Strapping: lo stile è quello classico della Bay Area degli anni d’oro, integrato come sempre da inserti particolari e efficaci. Davvero un ottimo pezzo, quindi, così come l’accoppiata che la segue a ruota, Devour e Last Minute: la prima è forse il vero e proprio apice dell’album, un anthem che rimanda ai vecchi album della band coi suoi cori presi pari pari dall’hardcore newyorkese ed una performance di Townsend eccezionale dietro al microfono; la seconda è invece la canzone più notevolmente influenzata dal black metal, con un’introduzione tastieristica maestosa, da soundtrack, ed un riffing basato sugli insegnamenti del metallo nero, soprattutto quello svedese, unito al solito background thrash/industrial/core dei nostri: anche se  può sembrare una bestemmia il risultato è davvero convincente.
Il death ritorna nella parte iniziale di Force Fed, per unirsi ai folli vocalizzi del canadese e ad un chorus struggente; anche qui assistiamo ad un vortice di sensazioni e stili musicali opposti ma che coincidono alla perfezione, da sentire. Dirt Pride, poi, è sparatissima, schizofrenica: addirittura simile a certo grind, riesce a stupirci persino con un break improvviso caratterizzato dal frinire di grilli e cicale. L’ultima Bring On the Young è invece l’episodio sicuramente più atmosferico dell’intero album: ricorda da vicino le ultime produzioni soliste di Townsend stesso, Terria su tutte, anche se con un feeling sicuramente più cupo ed ossessivo; grandissima anche qui la prestazione del singer, che si conferma in grado di cantare praticamente tutto ciò che gli salti in mente; memorabili i cori celestiali verso la fine del pezzo.

Come avrete capito, quindi, siamo di fronte all’ennesima opera di una band impossibile da etichettare e difficilissima da giudicare in poco tempo: anche mentre scrivo questa recensione le sensazioni relative ad ogni canzone mutano in continuazione, rendendo difficile un’opinione precisa. Di sicuro questo è indice di grandissima originalità ed ho come l’impressione che anche di questo album, come per “City”, parleremo davvero molto a lungo, considerandolo un precursore ed un punto di riferimento. C’è da dire però che qualche momento poco felice c’è ed influisce appena sul voto finale: in ogni caso gli Strapping Young Lad si riconfermano un caposaldo del metal moderno, forse gli unici (almeno in ambito “estremo”) a sfornare dischi assolutamente non derivativi e ad invogliarci davvero a spendere i nostri soldi.

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