Recensione: Synergy

Di Carlo Passa - 20 Settembre 2020 - 10:25

C’è stato un momento, al tramonto degli anni ottanta, che il bel viso di Janet Gardner, incastonato nell’allora consueto scoppio di capelli laccati, occupava di frequente l’ora più calda di MTV. I video di Edge of a Broken Heart e Cryin’, estratti dall’esordio delle Vixen, di cui Janet era la frontwoman, entravano nelle case di milioni di ragazzi, che stavano godendo delle ultime fiammate colorate dell’hard rock da classifica di quel decennio irripetibile.
Anche le Vixen non avrebbero retto alla svolta grunge che travolse d’improvviso gli spandex e le gonfie acconciature di quello che sarebbe stato poi etichettato, non a caso, come hair metal.
Tra scioglimenti e tristi reunion delle Vixen, Janet Gardner ha trovato il tempo di sposarsi con Justin James, buon chitarrista e produttore, oltre che bella penna dal facile piglio hard rock. Proprio James ha contribuito alla produzione e scrittura dei due album solisti della moglie (l’omonimo del 2017 e Your Place in the Sun del 2019), fino a meritarsi di uscire dalle note di copertina per assurgere a (cog)nome sulla copertina di questo Synergy.
La proposta della coppia non si scosta da quanto già pubblicato nei dischi solisti della Gardner: un hard rock che un tempo si sarebbe detto “da classifica”, fatto di melodie cristalline, ritornelli accattivanti e assolo ariosi. Nel complesso, Synergy suona meglio dei suoi predecessori in casa Gardner (o James?), in virtù di un dinamismo molto fresco, che rende l’ascolto del disco sempre piacevole, pur nella completa assenza di ogni forma d’innovazione rispetto al canone, stabilissimo, del genere. L’esperienza del duo fa il resto, essendo il disco suonato, prodotto e arrangiato alla grande, regalando all’ascoltatore una bella presenza degli strumenti, che suonano finalmente veri e non confezionati da una macchina.
Wounded apre Synergy e tutto è già chiaro: come posso non immaginare la Gardner vestita come nel 1991 che ammicca alle telecamere, mentre il ritornello ruffiano e così tanto accattivante mi porta in luoghi già visitati?
You Can Kiss This ha un riff aggressivo che apre un pezzo capace di ricordare i Kiss meno ovattati degli anni ottanta: niente di che, per carità, ma tanta convinzione, che alla fine porta a casa il risultato. Molto più cadenzata e groovy è Rise Up (ancora kissiana, in vero), che gioca intorno a un buon giro di chitarra e a un crescendo che parte dal bridge e porta a un ritornello che non sarebbe dispiaciuto agli Steelheart e agli Slaughter.
Quasi melanconico è il mid-tempo di Running To Her, che rimanda ai Def Leppard del periodo di mezzo (quello dorato di Hysteria, per capirci), riuscendo a non sfigurare nel confronto. Scorrono nella mente immagini al rallentatore del Sunset Strip, mentre fuori dal Rainbow folle di wannabe distribuiscono volantini che sanno di voglia di farcela nella città degli angeli (o nella giungla, a seconda dei momenti).
Inattesi inserti orientaleggianti aprono Lonely We Fight, che poi torna ad assestarsi sul genere più confacente alla coppia, scaturendo in un ritornello forse stavolta davvero un po’ banale.
Say You Will è la classica power ballad che avrebbe fatto la fortuna dei suoi autori circa trent’anni fa. Oggi ci limitiamo a valutarne la qualità compositiva, considerato che il suo appeal commerciale è ormai nullo. Say You Will è un buon pezzo, ma la sensazione è che le power ballad abbiano proprio fatto il proprio tempo e il rocker andrà sempre a risentirsi I Remember You, mentre scorderà in fretta questa, pur lodevole, Say You Will.
I Promise ci regala un altro riffone a sostengo di un pezzo da highway statunitense, mentre Mike Tramp e Bret Michaels sorridono nell’angolo della stanza. E al proposito, On A Wire non avrebbe sfigurato sul lato B di un singolo tratto da Flesh & Blood, mentre Gone è la scanzonata canzone hard rock che ci fa saltare sotto un palco: e chissenefrega se siamo in cinquanta e non più cinquantamila.
Altra ballad (non power, però) è Flying On Faith, dalla struttura non così canonica come ci si aspetterebbe e, alla fine, di buona qualità. Infine, Talk To Myself è sì divertente, ma in sostanza piuttosto inutile.
Concludendo, se Janet Gardner e Justin James mi invitassero a cena, non so se andrei. Voglio che gli eroi siano sempre giovani e belli. Mi accontenterei di ascoltarmi questo Synergy, che è un bel disco e mantiene viva la fascinazione per un tempo ormai lontano e per chi quel tempo ha contribuito a forgiare.

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