Recensione: Tardigrades Will Inherit the Earth

Di Fabio Martinez - 7 Marzo 2017 - 10:00
Tardigrades Will Inherit the Earth
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2017
Nazione:
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77

Possiamo giudicare un libro da una copertina? No, certamente no. E un album? Ancora una volta la risposta è no ma grande importanza nell’industria discografica viene assegnata alla grafica. Alcune copertine, vere opere d’arte, sono diventate leggendarie, veri simboli e icone.
Quelle dei due album dei The Mute Gods non mi sembrano bellissime ma di sicuro sono efficaci, specialmente nel legare i due album già alla vista e nel caratterizzare questo secondo lavoro con grande efficacia. La copertina di Tardigrades Will Inherit the Earth è ancora più disturbante di quella del suo predecessore, anticipa le sonorità acide dell’album, abbaglia con amarezza e una strana e velata rabbia, quella stessa silenziosa rabbia che può esprimere un serpente a sonagli, citato dal leader del gruppo, Nick Beggs, che descrive su FaceBook l’album “as angry as a rattle snake with its tail caught in a car door!”. Nick Beggs, che musicista straordinario! Ho avuto la fortuna di vederlo due volte dal vivo e mai la sua luce è stata coperta da quegli altri artisti immensi che suonano con Steven Wilson, un altro dei quali è il batterista del gruppo protagonista di questa recensione, il magnifico Marco Minnemann. Molto meno conosciuto è il terzo e ultimo membro dei TMG, Roger King, un tastierista che per venti anni ha operato quasi nell’anonimato, fino a quando ha iniziato a lavorare con Steve Hackett nel ’95. E sì, anche lui è eccellente. Il progetto, come spiegato nel sito della stessa band, nasce da un’idea di Beggs, che vuole qui essere compositore e impegnarsi in tematiche calate nel contesto contemporaneo, sociale ed esistenziale. Ciò è palese già dal nome del gruppo, una chiara protesta verso il fondamentalismo religioso.
Questo secondo lavoro continua sulla strada intrapresa col primo, procedendo verso un’asprezza più disturbante, con suoni acidi, distorti, con una musica poco appariscente ma dagli arrangiamenti complessi, tanto che sono necessari più ascolti per capirne davvero qualcosa e forse non bastano, almeno la sensazione di essere di fronte a un’opera di teoresi non è così facile da abbandonare. Certo, rispetto al predecessore, è qui riscontrabile un carattere più visibile, anche grazie all’assenza di ospiti illustri (resta solo Lula Beggs con l’aggiunta di Lauren King, entrambe backing vocals), ma comunque, nonostante la rapidità compositiva (è bastato meno di un anno di gestazione per questo album), si avverte un’assenza di organicità che rende poco coinvolgente il lavoro nella sua interezza. Si passa infatti da momenti belli e interessanti, ma mai eccezionali, come quelli delle tracce più lunghe (The Dumbing of the Stupid e The Singing Fish Of Batticaloa), a brani troppo ripetitivi e piatti, come Hallelujah. L’assenza di organicità è dovuta anche a una mistura non perfettamente riuscita di generi diversi. Entrano infatti prepotenti, dal passato di Beggs, il Pop (per esempio nell’ultimo brano) e la New Wave (nella traccia che dà il nome all’album), in un contesto dove il presente wilsoniano del bassista è più azzeccato. Inoltre anche qui la non bellissima voce solista di Beggs rende, grazie alla sua mancanza, più interessanti le fasi strumentali.
L’album si presenta – dopo un bello e breve intro strumentale (Saltatio Mortis) – subito più caustico e bellicoso del precedente con la piacevole Animal Army, seguita dall’ancora più arrabbiata e severa We Can’t Carry On, dove il coro femminile è assolutamente efficace, mentre il segmento centrale più melodico, in contrasto con la ritmicità di tutto il brano, è uno dei momenti più belli dell’intera opera. Più libera e virtuosa The Dumbing of the Stupid, grazie anche ad assoli di chitarra dal gran gusto e decisamente in contesto, accompagnati da una batteria da favola. Il brano si chiude con un’esplosione, subito seguita dalla apparentemente dolce chitarra acustica, intro della malinconica e Early Warning, dal basso incantevole e da atmosfere che mi ricordano Pat Metheny. Poi la title-track, momento che apprezzo meno, comunque non spiacevole, è una traccia veloce con influenze synth pop e new wave. New Wave che continua più soffusa in Window onto the Sun. Poi il chapman stick di Beggs (ma quanto mi fa impazzire!), accompagnato da chitarra acustica per un breve brano strumentale e atmosferico dal titolo Lament. The Singing Fish of Batticaloa è la canzone più prog, più lunga e anche più bella, seguita dalla più brutta, Hallelujah. Poi altro gran bel pezzo strumentale con The Andromeda Strain. L’album si chiude col momento più pop e dolce; introdotta dal piano, Stranger than Fiction, stona un po’ con la sua natura in contrasto col resto dell’opera ma lascia percepire che la proposta dei The Mute Gods troverà certamente continuità.
Tardigrades Will Inherit The Earth è un bell’album ma da un super gruppo del genere è lecito e doveroso aspettarsi di più, decisamente di più. Sì, è un piccolo passo avanti, e sì, è un lavoro decoroso e apprezzabile ma è un’altra occasione non del tutto centrata, se non mancata. Certo ci sono punti d’interesse, soprattutto in certe sonorità e nelle tematiche trattate, che fanno meritare a questo album una consigliata attenzione.

 

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