Recensione: Terrible Things

Di Stefano Usardi - 2 Aprile 2019 - 10:00
Terrible Things
70

Terrible Things” è il quinto album degli Indestructible Noise Command, quintetto di esagitati thrashers statunitensi attivo, seppur a tempi alterni, fin dalla metà degli anni ‘80, e arriva a cinque anni di distanza dal precedente lavoro del combo, “Black Hearse Serenade”. Come già anticipato i nostri, provenienti da Connecticut e zona di New York, suonano un vigoroso e dinamico thrash metal in cui non è difficile sentire l’impronta di gente come Anthrax e Overkill. Dieci tracce per tre quarti d’ora scarsi di durata, durante i quali il quintetto aggredisce l’ascoltatore con la sua mistura adrenalinica e sfacciata, dal retrogusto ingenuamente punk, fatta di croccanti rasoiate di chitarra, una sezione ritmica puntuale ed energica e un cantato iracondo e impudente, senza tralasciare un certo gusto per le melodie arroganti e dirette. Riff insistiti e veementi spadroneggiano un po’ ovunque in “Terrible Things”, anche se non mancano rallentamenti più sinistri e carichi di groove; il tutto, poi, viene condito da una sezione solista scattante e decisa. Le canzoni sono brevi, dirette e dal piglio intransigente, ottime per martellare l’ascoltatore e abbatterne pian piano le difese senza perdersi per strada con riempitivi inutili, puntando sull’immediatezza e sulla solidità del muro di suono prodotto, screziato di tanto in tanto da improvvisi squarci di melodia. Il risultato è un album veemente, rissoso, compatto, ma che potrebbe facilmente stancare un orecchio poco avvezzo a questo continuo bombardamento.

L’album si apre con l’iraconda e punkeggiante “Fist go Rek”: in meno di tre minuti e mezzo i nostri dicono tutto quello che si deve dire, a partire da un cantato sguaiato e riff compatti per finire con una sezione ritmica giustamente vivace e un solismo stridente ma non privo di una certa verve. “Identifier”, dopo una partenza stoppata, mantiene un andamento scandito dai continui stop & go, salvo poi lanciarsi in improvvise sfuriate e in un assolo dall’incipit lussureggiante. “Declaration” si ammanta di un’atmosfera più sinistra, quasi slayeriana, intervallata da passaggi carichi di groove e, ancora, aperture melodiche dal sapore quasi power pop. Quest’alternanza tra impudenza urlata e trionfalismo naif viene interrotta solo dall’assolo che apre la seconda metà del brano, salvo poi tornare a dettare legge nel finale. La title track, per parte sua, parte propositiva sfruttando un riff nervoso: l’attitudine rissosa dei nostri viene confermata dall’incedere aggressivo e costantemente proiettato in avanti della canzone, che trova un attimo di melodia meno sfrontata solo durante il solo e i ritornelli. “Pledge of Legions” prosegue con l’attacco frontale, alternando riff irrequieti ad altri in cui è più accentuata la componente cafona e saltellando tra velocità relativamente contenute ed improvvise e furibonde accelerazioni. L’assolo nervoso si apre improvvisamente per cedere poi spazio a un breve passaggio di melodie meno asfissianti, mentre la progressione finale sguaiata sfuma nella minacciosa “Unscathed”. Qui, dopo un incipit sulfureo, si parte alla carica con una traccia agguerrita che solo di tanto in tanto indulge in una certa sfrontatezza vocale vagamente teppistica. “Bone Saw Ballet” prosegue con quest’aura intimidatoria e sfacciata, garantita anche da ritmiche tipicamente heavy, che si fa più accentuata nella seconda metà del pezzo, mentre la successiva “Salmonella” torna a giocarsi la carta dell’intimidazione. Un arpeggio malevolo apre le danze, lasciando rapidamente il posto a chitarre abrasive e al solito approccio vocale rissoso. Il ritorno all’atmosfera sulfurea che aveva aperto il pezzo accoglie al suo interno una breve fiammata trionfale, prima di ammantare il finale con una pesantezza carica di groove. “Nemesis” sorprende con la sua introduzione pomposa e solenne, che in breve viene sostituita da un approccio nuovamente diretto e rude. La maestosità torna a fare capolino nella seconda parte del brano, aperta da un bell’assolo, salvo poi tornarsene in un angolino fino al ritorno dello sfarzo sinfonico giusto in tempo per il finale .
Chiude l’album “Devil of Hearts”, traccia inizialmente scandita che poi torna a snocciolare rabbia, chitarre nervose e cantante che sputa veleno. Il breve intermezzo che precede l’assolo mi è sembrato un po’ buttato lì, ma questo non toglie molto a una canzone giustamente arrogante che conclude in modo degno un album diretto, rissoso e ignorante quanto basta. “Terrible Things” non è un capolavoro – alla lunga l’attitudine pervicacemente riottosa dei nostri potrebbe diventare dura da digerire, soprattutto per il suo carattere insistente – ma se cercate un album per fare del sano casino farà di sicuro al caso vostro.

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