Recensione: The Age Of Absurdity

Di Simone Volponi - 18 Marzo 2018 - 19:12
The Age Of Absurdity
70

Non si ha bisogno di troppe presentazioni se il proprio nome è inciso nella storia del rock in qualità di chitarrista dei Motorhead per oltre trent’anni. La carriera di Phil Campbell è questa, da quando con lo pseudonimo “Wizzö” entrò a far parte nel 1984 della band di Lemmy, diventando un punto fermo di quella che, anche se non riconosciuta come line up classica, è stata la più longeva e stabile, il cui rumore è stato messo a tacere solo (e purtroppo) con la dipartita del leader. Un vuoto quello lasciato da Lemmy che tocca tutta la scena e si ripercuote, giocoforza, soprattutto sul proseguo del cammino dei due soci rimasti.
Se Mikkey Dee ha trovato ristoro dietro le pelli degli Scorpions, Phil Campbell ha scelto di ripartire dalla famiglia, chiamando intorno a se i figli ToddDane e Tyla, più il cantante Neil Starr. Così nasce la nuova band Phil Campbell And The Bastard Sons, dove quel Bastards rappresenta anche un richiamo all’omonimo album del ‘93 targato Motorhead.

Dopo il battesimo di fuoco in sede live al Wacken Festival nell’agosto del 2016 e l’uscita dell’EP omonimo, la band ha scaldato i motori e ha rodato la line up con una serie di concerti in giro per l’Europa, due tour con i fratelli in armi Saxon e uno in apertura ai parzialmente riformati Guns N’ Roses. Una volta svezzati i cuccioli, il lupo Phil ha deciso fosse tempo del primo album di inediti, e possiamo adesso ascoltare i frutti di questo “The Age Of Absurdity”, passato anche attraverso i mitici Abbey Road per la fase di mastering.
Il taglio tipico che da Campbell alla sua sei corde, e quindi quel timbro che abbiamo imparato a sentire nostro nei Motorhead, lo ritroviamo subito belli e pronti nella prima “Ringleader”, un hard rock aggressivo, sporco, dove troviamo piazzato un bell’assolo anch’esso tipico e che ci fa rivivere parte di quel treno senza compromessi che era la band di Lemmy. E i Bastard Sons come se la cavano? Sembra bene, senza strafare o particolari tecnicismi accompagnano il capo branco nelle sue scorribande col giusto piglio. La voce di Neil Starr non è niente di che, ma è abbastanza grezza per l’impianto sonoro proposto. “Freak Show” è un altro numero accattivante con un grande assolo di Campbell, fin troppo sottovalutato in carriera sotto tale aspetto, ma la sua chitarra ha sempre avuto un sapore particolare e una personalità che continua a farsi sentire.
Qualcosa dei Motley Crue affiora tra le note di “Skin And Bones”, la benedizione di un hard rock stradaiolo, pompato nella giusta maniera dalla produzione moderna. Va registrato come nella voce di Starr manchi forse l’alcolismo e la grana polverosa da cavallo di razza, e si avvicina per certe sfumature a Jacoby Shaddix dei Papa Roach.
Gipsy Kiss” ci regala un basso scalcinato simil-Aces Of Spades in un pezzo tirato che chiama di nuovo in causa l’eredità lasciata dai Motorhead, mentre “Welcome To Hell” sa un po’ di Velvet Revolver ed è forse troppo moderna. La ballad “Dark Days” porta in dote una traccia semi acustica e con tanto di armonica, un blues che odora di whisky dove si sente di più la mancanza d’esperienza viziosa del vocalist nell’interpretazione, ma ci pensa Phil Campbell a piazzare un altro bell’assolo e comunque tutto alla fine funziona. “Dropping The Needle” dice tutto in un minuto e cinquanta di rock pestante vecchia maniera, così come “Get Down On Your Knees” punta sulla formula vissuta da Campbell nella sua carriera, riff classico, strofa viziosa, andazzo da bucaniere del rock ‘n roll.

The Age Of Absurdity” gioca parecchio sul sicuro, d’altronde non avrebbe senso ormai avventurarsi oltre il sentiero conosciuto e tracciato, perciò chi ha seguito le tante gesta del chitarrista avrà la sensazione di entrare nel locale di fiducia sapendo già cosa c’è sul menù. Hard rock sanguigno, forse un po’ stanco in qualche occasione (“High Rule”) ma ancora in grado di soddisfare, specie quando Campbell e i suoi Bastardi virano sul boogie come nel bel finale affidato all’atmosferica “Into The Dark”. L’assolo di quest’ultima fa l’effetto del toccasana se si vuole continuare ad ascoltare la vecchia scuola.
Vecchia scuola la cui bandiera, una volta persi i capisaldi come nel caso di Lemmy, viene portata avanti da quanti rimangono e hanno contribuito a tenerla alta, seppur consumata da mille battaglie. E Phil Campbell, con un album come questo, è qui a ricordarcelo.

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